domenica 30 dicembre 2007

Siamo poveri forse (parte seconda)

Una vittoria giusta, meritata, esaltante perché sofferta per centoventi lunghi minuti durante i quali più di una volta le speranze argentine accennavano a spegnersi, e con loro quelle di venticinque milioni di... giocatori fuori campo. Una vittoria giusta, conquistata dalla squadra di Cesar Luis Menotti, non dalla polizia di Jorge Rafael Videla e neppure dei tifosi; questo era il dubbio della vigilia: quanto sarebbe pesato, sulla sfida mondiale, il fervore sviscerato della folla, la «hinciada», la tifoseria di costì, è invece simile a quella di tanti Paesi meridionali, pronta a esplodere come ad abbattersi, mai utile nei momenti cruciali; entusiasmo alle stelle prima della partita, con una pioggia di «papelitos» (pezzi di carta) assolutamente inedita; eppoi gioia frenetica al primo gol di Kempes, il fantastico «matador» argentino, l'unica vera stella di questo Mundial di cui -con sei gol- si è laureato anche capocannoniere; Al gol di Nanninga, giunto a nove minuti dalla fine quando ognuno in cuor suo già pregustava la festa, prima un grande silenzio poi un urlo disperato raggelavano il River. E ancora silenzio e paura nei minuti del primo tempo supplementare, mentre l'Argentina andava organizzandosi con molta freddezza, mostrando un volto inedito, quello della ragione.A mio avviso, Menotti ha vinto il suo Mundial in questi undici minuti di passione, dando alla squadra una impronta... italiana (ed è indubbio che la sconfitta con l'Italia gli ha insegnato qualcosa); ci si poteva aspettare, da un complesso pesantemente sbilanciato in avanti (e con un uomo nullo come Luque) e frustrato dall'inopinato pareggio olandese, una sorta di cieca carica suicida a testa bassa; e invece i biancazzurri si sono disposti saggiamente sulla difensiva e hanno risposto con ficcanti sortite in contropiede alle sfuriate massicce e pericolose degli olandesi, finendoli poi con un'altra sortita vincente di Kempes, avventatosi verso la rete avversaria con una spinta inarrestabile e tutta la sua non comune classe di autentico campione. Era il 2-1, la fine di un incubo, l'inizio di un trionfo che di lì a pochi minuti Bertoni (l'uomo che un anno fa aveva detto sorridendo: «Ho sognato di diventare campione del mondo») avrebbe definitivamente siglato.Una vittoria giusta e meritata, questa, anche perché gli olandesi hanno dato fondo alle loro buone risorse di fisico e dì tecnica per conquistare il titolo mondiale strappatogli dai tedeschi quattro anni prima.
Gli uomini di Happel hanno ripetuto la partita giocata con tro l'Italia, e devono imprecare alla malasorte che non gli ha fatto trovare... un altro Zoff, nella porta avversaria, ma un Fillol che si è superato, esibendosi in almeno un paio di occasioni, in parate da grande campione. Tutto questo sono riusciti a fare, gli olandesi, e hanno anche ottenuto un provvisorio pareggio, nonostante almeno quarantacinque minuti di arbitraggio gli fossero stati decisamente avversi. Non intendo muovere pesanti accuse (come altri ha fatto) a Sergio Gonella, che ha ben rappresentato l'Italia in questa finalissima mondiale amaramente e scioccamente perduta dagli azzurri: voglio solo dire che ha peccato nell'affidarsi ciecamente ai suoi collaboratori, segnatamente all'austriaco Linemayer che ha inventato incredibili fuorigioco degli olandesi nella prima fase del match. Gonella ha anche ecceduto nel fischiar falli nella prima parte della gara, ma si è, visto dopo -quando la partita è proseguita all'insegna della massima regolarità- che la sua severità era adeguata ad un match iniziatosi all'insegna del nervosismo, addirittura preceduto da quel singolare gesto di rinuncia degli olandesi che nella tribuna stampa del River aveva fatto subito dire a tanti: «Ecco, l'Olanda fa una protesta politica, rifiuta di battersi con gli argentini». E invece si trattava solo di eseguire una richiesta dell'arbitro: Willy Van de Kerkhof aveva una fasciatura gessata a una mano e non poteva giocare in quelle condizioni: questa l'opinione degli argentini condivisa -regolamento alla mano- da Gonella. il seguito della partita -come dicevo- ha visto Gonella arbitrare con molta disinvoltura ed efficacia, e tuttavia fa sua prova non può restare indenne da critiche soprattutto per il motivo cui già ho accennato: l'arbitro italiano ha concesso l'eccessiva fiducia a Linemayer e a Barreto, i quali tendevano a favore gli argentini, a ignorarne i falli, a vedere solo quelli degli olandesi o addirittura a inventarne a loro danno. Questo discorso potrebbe portare lontano: mi limiterò a dire che è sbagliato utilizzare in ruoli di guardalinee arbitri titolati che subiscono il... declassamento con malcelato disappunto e tendono ad esprimersi in questo ruolo importante ma secondario con la loro personalità di «primi fischi-primedonne»; quello del guardalinee è un altro mestiere, importantissimo ma più oscuro. Se si deve -dunque- giudicare la terna arbitrale di Argentina-Olanda nel suo complesso, non si può non rilevarne errori e incertezze non degni di una finalissima mondiale.
Con tutto questo -dicevo- l'Argentina ha meritato la sua vittoria che è anche motivo di duplice consolazione per noi: prima perché l'Olanda ha dimostrato che la sua vittoria sull'Italia non era stata casuale, poi perché -al tirar delle somme- gli unici che hanno battuto l'argentina «Mundial» siamo noi, italianuzzi sottovalutati e sorprendenti che proprio con la squadra di Menotti abbiamo giocato la partita più bella e intelligente. Questo accenno agli azzurri ci riporta indietro (e Dio sa se rinuncerei volentieri a questo flash-back) alla prima parte del «film delle finali», a quella di sabato, cioè, fra Italia e Brasile, detta anche beffardamente «final de perdidores», il match dei vinti. Ero certo che in condizioni normali l'Italia avrebbe battuto il Brasile, fosse questo avversario di terzo posto o di finalissima; ma quella di sabato, oltreché priva di due uomini-chiave come Benetti e Tardelli (ammoniti dal deprecabile Martinez al fine di ottenerne una squalifica che agevolasse l'Argentina in una eventuale finale con gli azzurri) era una formazione infelice per ben altri motivi, per precise scelte di Bearzot che non ho condiviso.
Patrizio Sala è andato bene per un tempo, ed era tutto quello che poteva fare, soprattutto giovandosi di una fase di gioco favorevole per noi; poi doveva essere sostituito, magari da Claudio Sala, che invece è entrato al posto di un Antognoni meno incerto del solito (ma che delusione, nel complesso: se stava male, perché portarlo a offuscare la sua piccola gloria nazionale davanti a una platea mondiale?). E Aldo Maldera? è stato del tutto inutile, un corpo estraneo nel nucleo della Nazionale, e non è il caso di aggiungere altro. Bearzot ha poi rinunciato all'inserimento di Graziani subito dopo il vantaggio acquisito dal Brasile. Ma si trattava — comunque — di una squadra che aveva già dato tutto, come ha dimostrato appena portatasi in vantaggio grazie al fenomenale spunto personale di Rossi e al bellissimo colpo di testa di Causio (la coppia più bella, forse, del clan azzurro): subito dopo, come con l'Olanda, tutti a casa, a difendere un'improbabile vittoria. Coutinho, invece, ha inserito un Reinaldo che ha rovesciato la partita come un guanto e ha favorito il successo dei brasiliani. Se è giusto criticare Bearzot, che dire di questo militar-ginnasiarca che ha azzeccato la formazione giusta solo nel secondo tempo dell'ultima partita? Cala ora la tela sul «Mundial», ma tante cose ci saranno da dire, ancora, sulla manifestazione (che necessita di approfondimenti di vario genere) e sull'Argentina, un Paese che merita amore e solidarietà, ma anche un esame sereno e obiettivo dei suoi problemi, un esame che ho promesso ai lettori e che cercherò di approfondire, prossimamente, senza reticenze. Torniamo a casa, tutto sommato, soddisfatti di quel che l'Italia ha fatto, delle nuove risorse del nostro calcio evidenziate davanti al pubblico di tutto il mondo, un pubblico esigente di tecnici e spettatori che ci hanno coperto di complimenti; soddisfatti soprattutto di avere veduto giusto nel segnalare a tutti (l'abbiamo fatto noi per primi, e ne siamo orgogliosi) un grande talento, quel Paolino Rossi che ha segnato gol decisivi, strappato applausi a scena aperta, e che promette un futuro ancora più bello. Per questo non piangeremo sul latte versato, augurando a Bearzot di trarre utili indicazioni dai successi e dalle sconfitte nel momento in cui si prepara a iniziare il delicato lavoro che ci porterà al Campionato d'Europa. Grazie a tutti gli azzurri, dunque, per quel che di buono ci hanno offerto.E un grazie di cuore -permettetemelo- a Bernard Lacombe. Non è stato forse lui, con quel gol bellissimo e maligno al trentaduesimo secondo di Italia-Francia a Mar del Plata, a farci scoprire un'Italia migliore?

di Italo Cucci, Guerin Sportivo, giugno 1978

sabato 29 dicembre 2007

Siamo poveri forse

BUENOS AIRES. Al fischio di chiusura di Sergio Gonella, dopo centoventi minuti di emozionante sfida, l'Argentina ha conquistato il suo primo titolo mondiale mentre gli ottantamila del River Plate erano vestiti di una sola bandiera, quella biancoazzurra, e gridavano -scandendola- una sola parola: «AR-GEN-TI-NA». in quell'attimo, chi ha potuto ha guadagnato frettolosamente l'uscita dello stadio a costo di essere scambiato per un tifoso olandese amareggiato. Era solo prudenza, invece: perché si sapeva che, di lì a poco, sarebbe scoppiata la rivoluzione.
Intorno al River Plate, un deserto che già minacciava di animarsi di una folla entusiasta, il frastuono che saliva carne un urlo di disperata gioia dal catino dello stadio, e da lontano l'eco di sirene, trombe, clacson che in ogni parte della metropoli già tifosi frenetici suonavano per sottolineare il grande, storico successo dell'Argentina e la prova maiuscola, davvero mondiale, di Mario Kempes, il «matador». Mi sono trovato quasi solo, mentre la festa del River continuava, come naufrago smarrito in gran tempesta. Intorno a me, un nugolo di poliziotti indecisi fra l'atteggiamento ufficiale e la voglia di gridare anche loro la gioia «mundial». Alcuni sventolavano banderillas biancazzurre, altri rispondevano con un gride agli sventolii e alle grida delle prime auto solitarie che sopraggiungevano nei pressi della «cancha» infuocata. Un poliziotto comprese il mio problema: come raggiungere il centro? «Esperamè, amigo», aspettami: fermò una macchina, confabulando un attimo con l'uomo che era alla guida, accompagnato da una donna e da un bimbo, poi aprì lo sportello: «Adios senor periodista, y suerte», buona-fortuna. Così cominciò un incredibile viaggio in una macchina gonfia di bandiere e poco dopo in mezzo a una fiumana di popolo biancoceleste che copriva con grida e canti il frastuono di migliaia di auto tutte dirette, come poche sere prima -dopo Argentina-Perù- verso l'obelisco il cuore della città, il cuore dell'intero Paese. Il mio amabile accompagnatore mi scoprì italiano: «Sono italiano anch'io, mi chiamo Testa, vengo da Olivos a festeggiare il trionfo della mia patria. La prego, scriva una cosa per me: dica che in Argentina ha vinto la pace.
Siamo poveri, forse, ma felici, onesti e vogliamo che tutto il mondo lo sappia». Si fa presto a cadere nella retorica, davanti a queste vicende, a queste affermazioni di sincera umanità, ma non si deve vergognarsene. Appena un mese fa, partendo dall'Italia, ognuno di noi portava nel cuore una grande paura: quella di partecipare a una drammatica cerimonia intrisa più di odio ohe dì amore, di motivi politici più che di sport. Ma fin dal primo giorno qualcosa è cambiato in noi, man mano che ci s'imbatteva in questa gente impagabile che da sempre ha conosciuto amarezze e che finalmente si apprestava ad un banchetto di felicità e voleva condividerla con tutti, con gli stranieri in particolare. Ogni straniero ohe arrivava a Baires costituiva per gli argentini una minaccia, una paura, un esame da superare. E non ci hanno provato in cento, in mille, in centomila: ma in venticinque milioni. Era la scritta che si leggeva dappertutto, a cominciar dall'aeroporto di Ezeiza: «venticinque milioni di argentini giocano il mondiale». L'hanno giocato e l'hanno vinto. Contro tutto e contro tutti. Contro i nemici interni (pochi) e quelli esterni, tanti; contro il sospetto e la malafede di chi voleva cancellare con un solo colpo di spugna le speranze di tanta gente, credendo con ciò di dare un duro colpo ad un regime che ha i suoi lati oscuri (e ne parleremo, nei prossimi giorni) e invece avrebbe condannato a trasformarsi in incubi i sogni del popolo più desideroso di pace che ci sia al mondo. Perché solo chi è uscito da una grande tragedia, e ancora ne sente il peso, come il popolo argentino, può capire quanto valgano la pace, l'amore, la fraternità, la libertà.
Tutto questo è riuscito a fare il calcio, imponendosi all'attenzione del mondo come una delle rare risorse idi pacificazione in tempo di odio fratricida. Forse qualcuno troverà insoliti e fuori posto questi argomenti all'Inizio di un commento che riguarda una vicenda dello sport: eppure, così come il primo sentimento che ci ha accompagnato costì era la paura, è altrettanto vero che la prima sensazione che si è provata all'ultimo minuto del «Mundial» è stata di grande soddisfazione: siamo noi, uomini per diversi motivi dati allo sport, gli ultimi ambasciatori della pace, gli ultimi abitanti di un paese felice. E adesso, Argentina Mundial.

di Italo Cucci, Guerin Sportivo, giugno 1978

venerdì 28 dicembre 2007

Umberto Saba: ultimo uomo sul monte

Tre momenti
Di corsa usciti a mezzo il campo, date
prima il saluto alle tribune. Poi,
quello che nasce poi,
che all'altra parte rivolgete, a quella
che più nera si accalca, non è cosa
da dirsi, non è cosa ch'abbia un nome.

Il portiere su e giù cammina come
sentinella. Il pericolo
lontano è ancora.
Ma se in un nembo s'avvicina, oh allora
una giovane fiera si accovaccia
e all'erta spia.

Festa è nell'aria, festa in ogni via.
Se per poco, che importa?
Nessun'offesa varcava la porta,
s'incrociavano grida ch'eran razzi.
La vostra gloria, undici ragazzi,
come un fiume d'amore orna Trieste.

Squadra paesana
Anch'io tra i molti vi saluto,
rosso-alabardati, sputati
dalla terra natia, da tutto un popolo amati.
Trepido seguo il vostro gioco.
Ignari
esprimete con quello antiche cose
meravigliose sopra il verde tappeto,
all'aria, ai chiari soli d'inverno.

Le angoscie che imbiancano

i capelli all'improvviso,
sono da voi così lontane!

La gloria vi dà un sorriso fugace:
il meglio onde disponga.
Abbracci corrono tra di voi, gesti giulivi.

Giovani siete, per la madre vivi;
vi porta il vento a sua difesa. V'ama
anche per questo il poeta, dagli altri
diversamente - ugualmente commosso.


Goal
Il portiere caduto alla difesa

ultima vana, contro terra, cela.
Il compagno in ginocchio che lo induce,
con parole e con mano,a sollevarsi,
scopre pieni di lacrime i suoi occhi.
La folla - unita ebbrezza - par trabocchi
nel campo; intorno al vincitore stanno,
al suo collo si gettano i fratelli.
Pochi momenti come questo belli,
a quanti l'odio consuma e l'amore,
è dato sotto il cielo, di vedere.
Presso alla rete inviolata il portiere,
l'altro - è rimasto; ma non la sua anima,
con la persona vi è rimasto sola.
La sua gioia si fa una capriola,
si fa baci che manda di lontano.
Della festa - egli dice - anch'io son parte....

Tredicesima Partita
Sui gradini un manipolo sparuto
si riscaldava di se stesso.
E quando -smisurata raggiera- il sole spense
dietro una casa il suo barbaglio, il campo
schiarì il presentimento della notte.
Correvano sue e giù le maglie rosse,
le maglie bianche, in una luce d’una
strana iridata trasparenza. Il vento
deviava il pallone, la Fortuna
si rimetteva agli occhi la benda.
Piaceva essere così pochi intirizziti uniti,
come ultimi uomini su un monte,
a guardare di là l’ultima gara.


Fanciulli allo stadio
Galletto
è alla voce il fanciullo; estrosi amori
con quella, e crucci, acutamente incide.
Ai confini del campo una bandiera

sventola solitaria su un muretto.
Su quello alzati, nei riposi, a gara
cari nomi lanciavano i fanciulli,
ad uno ad uno, come frecce. Vive
in me l'immagine lieta; a un ricordo
si sposa - a sera - dei miei giorni imberbi.
Odiosi di tanto eran superbi

passavano là sotto i calciatori.
Tutto vedevano, e non quegli acerbi.

Umberto Saba, Opere, Meridiani Mondadori, vol.I, Milano 2001.

giovedì 27 dicembre 2007

Pier Paolo Pasolini: ala destra

Il football è un sistema di segni, cioè un linguaggio. Esso ha tutte le caratteristiche fondamentali del linguaggio per eccellenza, quello che noi ci poniamo subito come termine di confronto, ossia il linguaggio scritto-parlato.
Infatti le “parole” del linguaggio del calcio si formano esattamente come le parole del linguaggio scritto-parlato. Ora, come si formano queste ultime? Esse si formano attraverso la cosiddetta “doppia articolazione” ossia attraverso le infinite combinazioni dei “fonemi”: che sono, in italiano, le 21 lettere dell’alfabeto.
I “fonemi” sono dunque le “unità minime” della lingua scritto-parlata. Vogliamo divertirci a definire l’unità minima della lingua del calcio? Ecco: “Un uomo che usa i piedi per calciare un pallone” è tale unità minima: tale “podema” (se vogliamo continuare a divertirci). Le infinite possibilità di combinazione dei “podemi” formano le “parole calcistiche”: e l’insieme delle “parole calcistiche” forma un discorso, regolato da vere e proprie norme sintattiche.
I “podemi” sono ventidue (circa, dunque, come i fonemi): le “parole calcistiche” sono potenzialmente infinite, perché infinite sono le possibilità di combinazione dei “podemi” (ossia, in pratica, dei passaggi del pallone tra giocatore e giocatore); la sintassi si esprime nella “partita”, che è un vero e proprio discorso drammatico.
I cifratori di questo linguaggio sono i giocatori, noi, sugli spalti, siamo i decifratori: in comune dunque possediamo un codice.
Chi non conosce il codice del calcio non capisce il “significato” delle sue parole (i passaggi) né il senso del suo discorso (un insieme di passaggi).
Non sono né Roland Barthes né Greimas, ma da dilettante, se volessi, potrei scrivere un saggio ben più convincente di questo accenno, sulla “lingua del calcio”. Penso, inoltre, che si potrebbe anche scrivere un bel saggio intitolato Propp applicato al calcio: perché, naturalmente, come ogni lingua, il calcio ha il suo momento puramente “strumentale” rigidamente e astrattamente regolato dal codice, e il suo momento “espressivo”.
Ho detto infatti qui sopra come ogni lingua si articoli in varie sottolingue, in possesso ciascuna di un sottocodice.
Ebbene, anche per la lingua del calcio si possono fare distinzioni del genere: anche il calcio possiede dei sottocodici, dal momento in cui, da puramente strumentale, diventa espressivo.
Ci può essere un calcio come linguaggio fondamentalmente prosastico e un calcio come linguaggio fondamentalmente poetico.
Per spiegarmi, darò – anticipando le conclusioni – alcuni esempi: Bulgarelli gioca un calcio in prosa: egli è un “prosatore realista”; Riva gioca un calcio in poesia: egli è un “poeta realista”.
Corso gioca un calcio in poesia, ma non è un “poeta realista”: è un poeta un po’ maudit, extravagante.
Rivera gioca un calcio in prosa: ma la sua è una prosa poetica, da “elzeviro”. Anche Mazzola è un elzevirista, che potrebbe scrivere sul “Corriere della Sera”: ma è più poeta di Rivera; ogni tanto egli interrompe la prosa, e inventa lì per lì due versi folgoranti.
Si noti bene che tra la prosa e la poesia non faccio distinzione di valore; la mia è una distinzione puramente tecnica.
Tuttavia intendiamoci: la letteratura italiana, specie recente, è la letteratura degli “elzeviri”: essi sono eleganti e al limite estetizzanti: il loro fondo è quasi sempre conservatore e un po’ provinciale… insomma, democristiano. Fra tutti i linguaggi che si parlano in un Paese, anche i più gergali e ostici, c’è un terreno comune: che è la “cultura” di quel Paese: la sua attualità storica.
Così, proprio per ragioni di cultura e di storia, il calcio di alcuni popoli è fondamentalmente in prosa: prosa realistica o prosa estetizzante (quest’ultimo è il caso dell’Italia): mentre il calcio di altri popoli è fondamentalmente in poesia.
Ci sono nel calcio dei momenti che sono esclusivamente poetici: si tratta dei momenti del “goal”. Ogni goal è sempre un’invenzione, è sempre una sovversione del codice: ogni goal è ineluttabilità, folgorazione, stupore, irreversibilità. Proprio come la parola poetica. Il capocannoniere di un campionato è sempre il miglior poeta dell’anno. In questo momento lo è Savoldi. Il calcio che esprime più goals è il calcio più poetico.
Anche il “dribbling” è di per sé poetico (anche se non “sempre” come l’azione del goal). Infatti il sogno di ogni giocatore (condiviso da ogni spettatore) è partire da metà campo, dribblare tutti e segnare. Se, entro i limiti consentiti, si può immaginare nel calcio una cosa sublime, è proprio questa. Ma non succede mai. E un sogno (che ho visto realizzato solo nei Maghi del pallone da Franco Franchi, che, sia pure a livello brado, è riuscito a essere perfettamente onirico).
Chi sono i migliori “dribblatori” del mondo e i migliori facitori di goals? I brasiliani. Dunque il loro calcio è un calcio di poesia: ed esso è infatti tutto impostato sul dribbling e sul goal.
Il catenaccio e la triangolazione (che Brera chiama geometria) è un calcio di prosa: esso è infatti basato sulla sintassi, ossia sul gioco collettivo e organizzato: cioè sull’esecuzione ragionata del codice. Il suo solo momento poetico è il contropiede, con l’annesso “goal” (che, come abbiamo visto, non può che essere poetico). Insomma, il momento poetico del calcio sembra essere (come sempre) il momento individualistico (dribbling e goal; o passaggio ispirato).
Il calcio in prosa è quello del cosiddetto sistema (il calcio europeo): il suo schema è il seguente:
il “goal”, in questo schema, è affidato alla “conclusione”, possibilmente di un “poeta realistico” come Riva, ma deve derivare da una organizzazione di gioco collettivo, fondato da una serie di passaggi “geometrici” eseguiti secondo le regole del codice (Rivera in questo è perfetto: a Brera non piace perché si tratta di una perfezione un po’ estetizzante, e non realistica, come nei centrocampisti inglesi o tedeschi).
Il calcio in poesia è quello del calcio latino-americano: il suo schema è il seguente:
schema che per essere realizzato deve richiedere una capacità mostruosa di dribblare (cosa che in Europa è snobbata in nome della “prosa collettiva”): e il goal può essere inventato da chiunque e da qualunque posizione.
Se dribbling e goal sono i momenti individualistici-poetici del calcio, ecco quindi che il calcio brasiliano è un calcio di poesia. Senza far distinzione di valore, ma in senso puramente tecnico, in Messico [Mondiali '70] è stata la prosa estetizzante italiana a essere battuta dalla poesia brasiliana.

[Pier Paolo Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, Vol. II, Meridiani Mondadori, Milano 1999]


Senza cinema, senza scrivere, che cosa le sarebbe piaciuto diventare?
Un bravo calciatore. Dopo la letteratura e l’eros, per me il football è uno dei grandi piaceri. I pomeriggi che ho passato a giocare a pallone sui Prati di Caprara (giocavo anche sei-sette ore di seguito, ininterrottamente: ala destra, allora, e i miei amici, qualche anno dopo, mi avrebbero chiamato lo “Stukas”: ricordo dolce bieco) sono stati indubbiamente i più belli della mia vita. Mi viene quasi un nodo alla gola, se ci penso. Allora, il Bologna era il Bologna più potente della sua storia: quello di Biavati e Sansone, di Reguzzoni e Andreolo (il re del campo), di Marchesi, di Fedullo e Pagotto. Non ho mai visto niente di più bello degli scambi tra Biavati e Sansone (Reguzzoni è stato un po’ ripreso da Pascutti). Che domeniche allo stadio Comunale!

Enzo Biagi intervista Pier Paolo Pasolini, «La Stampa», 4 gennaio 1973

lunedì 24 dicembre 2007

Natale a Futbolandia

Futbolandia augura Buon Natale a tutti quelli che negli imminenti e soporiferi pomeriggi festivi -tra capitoni, cin cin berlucchiani e torroncini- verranno ridestati dalla recondita inquietudine per la lunga pausa calcistica invernale, rintracciando nello zapping natalizio tra i canali 201/250 nient'altro che repliche di Energie Cottbus-Norimberga, di Udinese-Empoli o dell'ultimo derby meneghino (che Dio ci preservi da ogni male...).
Buon Natale a quelli che la domenica pomeriggio proprio non ne vogliono sapere di uscire se non per andare allo stadio (nè, tanto meno, la sera del dì di festa perchè c'è la DS) e a quelli che il sabato mattina si adoperano con zelo e dedizione per i preparativi della formazione Fantacalcio nonostante le già innumerevoli e immeritatissime sconfitte...
Buon Natale a chi crede che l'omaggio del Liverpool con tanto di fiocco-regalo sia già stato confezionato e spedito in via Durini 24 e che Santa Claus "a 'sto giro" abbia decisamente esagerato con la sambuca smarrendo il pacco -causa approssimativa sterzata di renne sulla rotta Rovaniemi-Milano- e ora vallo a ripescare; chissà che non arrivi entro metà febbraio....
Buon Natale a chi continua ad amare senza cognizione di causa il calcio, con o senza il beneplacito di mogli e fidanzate.
Buon Natale a chi si augura che la Juventus compri un regista perbene nel mercato di riparazione, a chi intercederà tra poche ore per il polpaccio sinistro di Ronaldo, perchè Dida non mangi il panettone (e in caso contrario, che almeno un'uvetta gli vada di traverso...) o perchè Pato possa realmente risolvere ogni futura traversia.
E Buon Natale naturalmente anche a tutti gli altri...

sabato 22 dicembre 2007

Scusa Ciotti ti interrompo...

Pensate com'erano diversi i tempi, quando qualcuno toglieva la linea a un altro, gli chiedeva «scusa». Oggi si parlano addosso in mille, senza capirsi e senza farsi capire. Erano i tempi eroici del calcio alla radio, di Tutto il calcio minuto per minuto. Era annunciato da un uccellino, in un elegante spot dello Stock 84. Ora siamo ridotti a quello di Del Piero. Scusa Ameri, scusa Ciotti, scusa Bortoluzzi e arrivano gli aggiornamenti: oggi dovremmo essere noi a scusarci con tutti loro, mai nessuno ha saputo sostituirli. Colossi in mezzo ai quali impallidivano gli altri: il «clamoroso al Cibali» nacque da un corrispondente di provincia che cercava la sua piccola parte di notorietà.
Il teatrino si spostò presto in tv, quando con Novantesimo minuto i gol entravano nelle case già a metà pomeriggio. Nacque un cabaret animato da personaggi entrati nella storia televisiva, dallo spaurito Carino al cattedratico Necco, dall'ansiogeno Giannini al cantilenante Gard, facevano ridere senza volerlo, rigorosamente in diretta. Oggi i loro eredi vanno in registrata, cercando di far sorridere, e fanno solo piangere. Li guidava tutti un signore garbato, Paolo Valenti. Quando si presentò all'ultimo appuntamento, smagrito ormai dalla malattia, capimmo che stava finendo un'era.
Cosa resta di quegli anni? La nostalgia di un calcio più ruspante e meno organizzato: se si perdevano un gol si scusavano dicendo che l'azione era stata così veloce da aver sorpreso anche il cameraman. Oggi di telecamere ce ne sono mille, sminuzzano tutto eppure non riescono a trasmetterci la poesia di quei tempi. Purtroppo ci resta anche una scomoda eredità, quella del primo cognome storpiato di un calciatore, quando Rancati si invento Causio con l'accento sulla u. I Mansini e i Sanetti sono nati da lì.

Vincenzo Cito, Sportweek, anno VIII, n. 49 (384), 22 dicembre 2007.

lunedì 17 dicembre 2007

Mondiale per Club 2007

Play-off
7 dicembre 2007, ore 19:45
Sepahan-Waitakere United 3-1 (Emad Mohammed 3', 4', Abdul-Wahab 47', Aghily 74' -aut.-)
National Stadium, Tokyo. Spettatori: 24.788
Arbitro: Marco Rodriguez

Quarti di finale
9 dicembre 2007, ore 14:45
Étoile Sportive du Sahel -Pachuca 1-0 (Narry 85')
National Stadium, Tokyo. Spettatori: 34.934
Arbitro: Mark Shield

10 dicembre 2007, ore 19:30
Sepahan - Urawa Red Diamonds 1-3 (Karimi 80', Nagai 32', Washington 54', Aghily 70' -aut.-)
Toyota Stadium, Toyota. Spettatori: 33.263
Arbitro: Coffi Codjia

Semifinali
12 dicembre 2007, ore 19:30
Étoile Sportive du Sahel-Boca Juniors 0-1 (Cardozo 37')
National Stadium, Tokyo. Spettatori: 37.255
Arbitro: Claus Bo Larsen

13 dicembre 2007, ore 19:30
Urawa Red Diamonds-Milan 0-1 (Seedorf 68')
International Stadium, Yokohama. Spettatori: 67.005
Arbitro: Jorge Larrionda

Finale terzo posto
16 dicembre 2007, ore 16:00
Étoile Sportive du Sahel-Urawa Red Diamonds 2-2/2-4 dts. (Frej 5', Chermiti 75', Washington 35', 70')
International Stadium, Yokohama. Spettatori: 53.363
Arbitro: Peter O'Leary

Finale
16 dicembre 2007, ore 19:30
Boca Juniors- Milan 2-4 (Inzaghi 21', Palacio 22', Nesta 50', Kakà 61', Inzaghi 71', Ledesma 85')
International Stadium, Yokohama. Spettatori: 68.263
Arbitro: Marco Rodriguez

domenica 16 dicembre 2007

Rivincita di Natale

16 dicembre 2007: il cerchio è chiuso.
Il Milan è la prima squadra europea a vincere il Mondiale per Club (vinto nelle precedenti due edizioni da San Paolo e Internacional de Puerto Alegre) -nuova formula del vecchio trofeo intercontinentale FIFA-
imponendosi di misura in semifinale sull'Urawa Red Diamonds, vincitrice del titolo nazionale giapponese e della coppa asiatica (con rete di Seedorf) e in finale con largo margine sul Boca Juniors (4-2, con reti di Inzaghi, Palacio, Nesta, Kakà, Inzaghi, Ledesma).
Il Boca di Russo è una buona squadra, nonostante l'incolore settimo posto in Apertura e l'eliminazione prematura dalla Copa Americana, con buone individualità (come Palacio, Neri Cardozo e soprattutto Ever Banega, oggetto del desiderio di molte europee nonostante il talento senz'altro indiscusso ma ancora del tutto plasmabile) e un discreto ordine tattico, ma quello del Virrey Carlos Bianchi, dominatore nel 2003 di campionato Clausura, Libertadores e carnefice proprio del Milan in finale Intercontinentale, onestamente era di tutt'altra levatura, potendo contare sulle prestazioni di Carlitos Tevez, Guillermo Barros Schelotto, Nicolas Burdisso e Pato Abbondanzieri. Hugo Ibarra e Sebastian Battaglia sono gli unici reduci di quella formazione, e nemmeno un Loco come Martin Palermo ha potuto molto di fronte al Governo Nesta-Kaladze.
Così il Milan chiude con il terzo trofeo stagionale (dopo Champions League e Supercoppa Europea) un anno di sfarzi e gratificanti rese dei conti -ieri con il Liverpool, oggi con gli xeneizes- impreziosito dalla definitiva consacrazione internazionale di Ricardo Izecson Dos Santos Leite (in arte Kakà) splendido e più compiuto esemplare di calcio moderno, perfetta e superomistica sintesi di tecnica, abilità e vigore fisico, ultimo vincitore del Pallone d'oro e, tra poche ore, del FIFA World Player, secondo le indiscrezioni davanti a Leonel Messi e Cristiano Ronaldo.
Inutile considerare che chiudere la stagione con una vittoria nel derby di Natale contro un'Inter in stato di grazia sarebbe splendido, dal momento che Milano è caput mundi del calcio europeo come forse mai le era accaduto sino ad ora (causa lunghe latitanze interiste, risalenti all'incirca all'età mesozoica).
Ma forse è meglio non esorbitare: ubi maior minus cessat.

mercoledì 12 dicembre 2007

A United Decade

Manchester United: 1960/69
After building one of the greatest teams seen in England, Matt Busby had to start all over again at the start of the 1960's. The Munich air disaster had robbed him, and football, of some of the era's greatest players. But once the great manager had recovered from his own injuries, he set about building another side to take the world by storm.
Dennis Viollet was one of the leading names within this team. In 1959/60, the Munich survivor broke Jack Rowley's club record by scoring 32 goals in one league season. The team in total scored 102, but they conceded 80 and finished in seventh place.
Viollet wasn't the Munich survivor to enjoy a great Old Trafford career; others included Bill Foulkes, and Bobby Charlton, who came through the club's youth ranks to break goalscoring records for club and country. Nobby Stiles also rose through the ranks, while Denis Law came via a record £115,000 transfer from Torino.
United's form was erratic at the start of the decade, while new names settled in, but then everything came together with a run to Wembley for the 1962/63 FA Cup Final. Busby's new-look team beat Leicester 3-1, with two goals from David Herd and one by Law.
The next season saw United build on the foundations of FA Cup success to challenge for the title – finishing second, only four points behind the champions Liverpool, to whom they lost both at home and away. The 1962/63 season was also notable for the signing and debut of George Best, the young man from Belfast who would become football's first superstar. His incredible skill, pace and control left opponents in knots, making him a hit with the fans, while his filmstar looks made him a hit with the ladies.
In 1964/65, the famous trio of Best, Law and Charlton took United to new heights. They won the League Championship, pipping Leeds on goal difference, and reached the semi-finals of the European Fairs Cup and the FA Cup. Law plundered goals galore and was named the European Footballer of the Year.
The title-winning team seemed to be the finished article, but they finished a disappinting fourth the following season, and exited both the FA and European Cups in the semi-finals. The season's highlight had been the 5-1 away thrashing of Benfica in the European Cup quarter-finals, when Best had been in blistering form.
In 1966/67 United were crowned League Champions again and another season of European Cup Football was guaranteed. This time, United would go all the way, beating Benfica in the final at Wembley. Jaime Graca equalised Charlton's headed goal to take the game into extra-time, but further goals from Best, Brian Kidd and Charlton gave United their first European Cup. Just 10 years after Sir Matt had seen his dream team destroyed, he had performed the impossible. He was knighted soon afterwards.
The following season saw the European Champions finish eleventh in the league and fail to win a trophy. They also lost the World Club Championship 2-1 on aggregate to Estudiantes. Despite the anti-climatic end to the decade, United fans could feel delighted with the 1960's. Few could begrudge Sir Matt Busby's retirement in 1969, after all he'd achieved.

http://www.manutd.com/

domenica 9 dicembre 2007

L'ultimo verdetto

Con una piccola variazione sul tema, omaggio la boxe -passione di retaggio paterno- che la scorsa notte ha scritto una pagina importante della sua storia con l'incontro Mayweather-Hatton per il titolo superwelter, in appendice all'evento di sette mesi fa quando Mayweather ha ottenuto il sesto titolo pound for pound battendo Oscar De La Hoya.

La scorsa notte all'MGM di Las Vegas Nevada Floyd Mayweather Jr. -pugile trentenne di Grand Rapids- ha conservato il titolo mondiale WBC dei pesi superwelter battendo per ko tecnico alla decima ripresa lo sfidante britannico Ricky Hatton, alla prima sconfitta della carriera.
L'inglese di Manchester attacca fin dalla prima ripresa con una serie di buone combinazioni, ma i suoi colpi si infrangono sui guantoni dell'avversario o sfilano indolori ai lati del viso di Floyd, che al contrario va a segno nella terza usando il sinistro come tempestiva arma di anticipo e aprendo Hatton sopra l'occhio sinistro, poi alla quarta con due montanti destri. Mayweather è «troppo esperto, scaltro e di classe eccelsa per lasciarsi condizionare dal caos che gli scoppia intorno» (Massimo Lopes Pegna). Floyd "tira il fiato" nella quinta ripresa e nella sesta Hatton riceve una penalizzazione per un colpo dietro la nuca dell'avversario. Fine dei giochi: la seconda parte dell'incontro è un monologo di Mayweather con il consueto versatile repertorio, sintesi perfetta di disarmante agilità ed elegante potenza. Alla nona devastante uppercut di Mayweather e alla decima epilogo del Floyd Show con un chirurgico gancio sinistro che costringe Hatton sul sostegno del ring poi al tappeto e l'arbitro dopo il conteggio all'interruzione della sfida (Hatton si rialza all'ottavo secondo ma in avanzato stato confusionale), con lo statunitense già avanti 89-81 per i primi due giudici, 88-82 per il terzo.
Cala verosimilmente qui il sipario della fantastica carriera da imbattuto di Floyd Mayweather Jr. (39 vittorie in altrettanti incontri con 25 soluzioni prima del limite, a 49 c'è solo l'inarrivabile Marciano), il miglior pugile pound for pound di questa generazione, iridato in cinque diverse categorie (superpiuma, leggeri, superleggeri, welter e superwelter). Per Hatton invece prima sconfitta in carriera dopo 43 successi e la resa dei meriti all'avversario dopo le consuete -e a dire il vero, reciproche- bizze verbali della lunga vigilia e i musi duri in occasione della cerimonia del peso. Se Mayweather ridimensionerà le intenzioni di ritiro, l'attualità suggerisce il nome del portoricano Miguel Cotto -anch'egli ancora imbattuto- come prossimo pretendente alla cintura di un titolo da sempre di spettanza sudamericana.
Floyd Mayweather aveva conquistato la cintura superwelter lo scorso 6 maggio contro Oscar De La Hoya, vincendo per Split Decision dopo un incontro equilibrato ma con el Chico de Oro costretto a snaturare la sua boxe d'incontro per via della superiore stazza fisica, tenendo sempre ma senza efficacia il centro del ring. Ma la tattica elusiva e la maggiore pulizia dei colpi sancirono il verdetto dei cartellini dei giudici a favore di Mayweather.
L'ultimo responso spetta, quasi per intercessione divina, al maestro Rino Tommasi: «malgrado alcune riserve di ordine stilistico, nella sostanza il verdetto finale premia un grande campione e le sue qualità essenziali di qualità e precisione che fanno della boxe un'arte, non sempre nobile ma spesso sincera».

sabato 8 dicembre 2007

Il Sol Levante ha l'Oro in bocca

Quattro giocatori sino ad ora hanno vinto nello stesso anno e in ordine sincronico la Coppa dei Campioni, il Pallone d'Oro e la Coppa Intercontinentale: si tratta di Gianni Rivera nel 1969 con il Milan, Franz Beckenbauer nel 1976 con il Bayern Monaco, Michel Platini nel 1985 con la Juventus (oltre alla classifica marcatori di serie A con 24 centri) e Marco Van Basten nel 1989 con il Milan (oltre alla Supercoppa Europea). Ronaldo nel 2002 non vinse la Coppa dei Campioni (perchè ceduto in estate dall'Inter al Real Madrid), ma nell'anno solare si aggiudicò il Mondiale di Corea e Giappone (con classifica marcatori e titolo di miglior giocatore del torneo annessi), bissò il Pallone d'Oro del 1999 e vinse con i blancos la Coppa Intercontinentale.
Che Kakà possa hic et nunc chiudere il cerchio aperto da un altro Golden Boy in medesima uniforme.

mercoledì 5 dicembre 2007

Apologia di Ronaldo

A Futbolandia -ormai si sa- il tempo si è fermato, e Ronaldo continua a essere un dio, un dio minore tra quelli che si rendono necessari per supplire alla morte, alla fuga o al silenzio delle divinità vere.
Con perplessità il mese scorso ho preparato l'ultima consultazione sul calciatore più forte di Futbolandia, e con altrettanta esitazione ho inserito nell'elenco dei candidati Ronaldo, ancora depositario di una distinta fascinazione mediatica ma ormai distante dai suoi fasti calcistici. Ebbene, l'inatteso esito del sondaggio ha indicato Ronaldo preferito al novo firmamento calcistico con più della metà delle preferenze e con Kakà, Ibrahimovic, Messi e Cristiano R. a spartirsi sotto la tavola del triclinio conviviale le briciole da elargire poi alla follia collettiva della piazza del pallone.
Io non so ancora se davvero Ronaldo sia il miglior calciatore del mondo o se invece stiamo tutti immaginando che lo sia come ultimo frutto della nostra postmodernità. Dove il tempo si è fermato e l'aurea sembianza di Ronie si prende gioco degli inermi avversari in maglia blaugrana.

In suo omaggio, vi raccomando la lettura di questo articolo di Manuel Vàsquez Montalbàn pubblicato su La Repubblica del 27 aprile 1997:
Dio e Roger Vadim crearono Brigitte Bardot servendosi soltanto di fango femminile. Ora la Fifa ha creato il mito calcistico di fine millennio, Ronaldo, il calciatore chiamato a perpetuare la speranza laica di ogni settimana.
L'orgasmo del calcio, Poesia in movimento, Il gol totale, un calciatore venuto da Marte, Il gol galattico, extraterrestre, Il gol orgasmico, cibernetico, Il gol di un altro pianeta, megagol. Non è ancora finita la lista di epiteti panegirici dedicati al nuovo idolo del mercato calcistico spagnolo e mondiale, Ronaldo Nazario, ventenne già considerato come il miglior calciatore del 1996.
Realtà o desiderio? La sempre più complessa e arricchita industria del calcio ha bisogno di punti di riferimento mitologici che la aiutino a crescere e a consolidarsi. Di Stefano, Pelé, Cruyff, Maradona, hanno riempito quattro decenni e sono ormai leggende, ma ogni industria ha bisogno di rinnovare i propri dèi. La Fifa ha scelto Ronaldo come il dio minore erede di Maradona, capace di officiare nella religione del calcio senza ricorrere alla cocaina. Sul poderoso e agile corpo di un centravanti che sembra elaborato dall'ingegneria genetica, grava il peso di una delle scarse possibilità di Assoluto che ci siano rimaste e se non gli spappolano le gambe o il cervello, abbiamo un dio per i prossimi dieci anni.
Ronaldo gode di condizioni fisiche inusuali che che gli consentono l'aplomb di un corpo ben fornito, difficile da ostacolare e abbattere e un'agilità da ballerino di tip-tap, virtú fisiche unite a quella tecnica che i bambini brasiliani acquistano con innata spontaneità. Un valore aggiunto al suo splendore calcistico è quel che è costato: 2.500 milioni di pesetas (circa 30 miliardi di lire) pagati dal Barcellona per un giocatore promettente, che nel calcio olandese non aveva dato di sé quanto ci si aspettava. E in questi momenti il F.C. Barcelona sta studiando la possibilità di alzare la clausola di riscatto a 15.000 milioni di pesetas (180 miliardi). Ronaldo è talmente sopravvalutato che l'angoscia si è fatta di pietra nel cuore dei dirigenti del Barcellona, i quali temono che gli affari propiziati dall'immagine del calciatore, attirando l'attenzione di altre squadre, provochino la corsa al rialzo, e che il passaggio di Ronaldo per Barcellona diventi un fugace transito di autopromozione.
A tal punto preoccupa una simile capacità di fuga dell'idolo, che si è creato un dispositivo tattico per risolvere i problemi di adattamento di un ragazzo di vent'anni. Come stabilizzare il suo mondo emozionale a Barcellona, a tanti chilometri dalla sua famiglia, dalle sue fidanzate, dal samba? È stato scritto che per un calciatore il miglior fattore di stabilizzazione sono la madre o la sorella, e si è fatto quindi tutto il possibile per trasferire la madre di Ronaldo a Barcellona. E altrettanto si è fatto con la sua fidanzata Susana, popolarmente conosciuta come Ronaldinha, una bella bionda calciatrice che per il momento assolve in questo mondo la funzione di placare le nostalgie segrete del gladiatore in esilio.
L'instabilità emozionale attribuita ai calciatori brasiliani ha una sua delicata casistica. A Donato e a Baltazar venne il ghiribizzo della mistica e resero buoni servizi all'ombra protettrice della religione. Bebeto genera bambini brasiliani a ogni piè sospinto, Romario vive in continuo andirivieni, evidenziando così che esiste anche il brasiliano errante. Si teme che Ronaldo non incontri né la religione ne la Ronaldinha né la clausola di riscatto in grado di ancorarlo per davvero a Barcellona, a Roma o in alcun altro posto, perché Ronaldo non apparterrà mai strettamente a una squadra, ma alla promotion multinazionale, capace di pagare il prezzo dell 'eterna sostanza dei miti. Potremmo addirittura dubitare dell'esistenza di Ronaldo e arrivare alla conclusione che si tratti di un giocatore virtuale creato dalla Fifa per farci restare fedeli a una di quelle religioni minori che compensano la morte di Dio, dell'Uomo, di Marx e di Marilyn Monroe.


Nostalgico anacronismo dite? Non in questa sede...

domenica 2 dicembre 2007

L'inverno con la mia generazione

Ricordate la storia della vostra sciarpa da stadio?
La mia è "nata" l'11 dicembre 1999 a San Siro, tredicesima giornata di campionato, anticipo del sabato, ore 18.00. Il Milan di Alberto Zaccheroni (Abbiati, Maldini, Costacurta, Sala, Guglielminpietro, Albertini, Serginho, Ambrosini, Boban, Shevchenko, Bierhoff) affronta il Torino. La notte precedente fui ospite del marchese De Sade in via Valtellina ...baby just come to me/don't brake my heart tonight/swinging my soul desire/baby just come to me/be what you wanna be/using your fantasy... e quel sabato mi recai allo stadio per la prima volta con Felice, dopo la mattinata scolastica con tema in classe mensile: nel tragitto pedestre Lotto/curva Sud ci confrontammo sulle reali potenzialità di una squadra piuttosto appannata (come del resto da routine mia e di Andre sul nove tra Lamarmora e Porta Genova, quando non ci si dedicava al laborioso cicaleggio della splendida... ma come si chiamava? Mah...) sebbene campione d'Italia uscente. Milano sotto zero già alle cinque del pomeriggio, e fu così che in Fossa (e poi andammo come sempre in Brigate, e per difenderci dal freddo... ma questa è un'altra storia...) decisi di acquistare una sciarpa (in allegato, il programma F.d.L. con il diario delle ultime trasferte e il mini-poster di una bellissima coreografia "suina" di uno sfortunato derby -segnò Berti- di qualche anno addietro) pagandola diecimila lire. Il Milan superò il Toro 2-0 con rete di Bierhoff al terzo minuto di gioco e raddoppio di Sheva su rigore al minuto '75. Nel Toro lo sfortunato ex Gianluigi Lentini subentrò al minuto '62 a Francesco Coco, dall'anno successivo esplosivo terzino sinistro in corsia rossonera e idolo incontrastato del giovane Quarù.
Il Milan quell'anno chiuse terzo (l'Inter quarta a tre punti) alle spalle di Lazio e Juventus, il Torino -quartultimo- retrocedette.
Quell'anno partecipai alla prima stagione della "nostra" Lega Fantacalcio con la Matador Nine Group, generosa compagine nonostante il modulo a una sola punta (dovrei rivendicare forse la paternità calcistica dell'albero di Natale?) 'fantacalcisticamente' poco proficuo. Il giorno dell'asta da Gianni infatti, dopo aver pagato uno sproposito Marcelo Salas, quell'anno campione d'Italia con la Lazio, fui costretto per improrogabile incombenza (a diciott'anni le così designate non si contano, la mia quel giorno si chiamava Sissy P.) ad abbandonare il tavolo delle trattative, rientrando a centravanti titolati ormai battuti. Un longilineo portiere gallico di diciott'anni dai capelli color ghiaccio e in forza al Verona nel suo primo anno "italiano" difese la porta della Matador 9 per l'intera stagione (da allora milita nell'Estudiantes, nata dalle ceneri della M9G, pesa circa trenta chili in più ma è sempre fortissimo). La squadra disputò un campionato dignitoso, centrando un terzo posto alle spalle della Real Felix (squadra di antichi fasti ma di nobiltà ormai decaduta e sconfitta nel primo confronto di quell'anno con un antologico 6-5) e della Longobarda di Marco.
Ma torniamo alla sciarpa, perchè da quel giorno non me ne sono più separato, e quella di Felice -molto simile alla mia ma con campo grigio anzichè rosso- finì nientemeno trionfalmente esposta nella foto di classe di quell'anno, seconda liceo classico.
Quella sciarpa ha assistito a Manchester alla mia più grande gioia sportiva (ultimo Mondiale escluso) anche se in quell'occasione, causa errore di percorso, dovetti tenerla legata sotto la maglietta double dell'Inghilterra, perchè i gulliveriani Drughi miei vicini di posto -brave persone sì, ma con una poco istruita vena umoristica- forse non avrebbero altrimenti apprezzato. Quella sciarpa nel 2005 ha testimoniato il primo tempo più bello della storia del calcio, salvo poi curarsi delle lacrime versate a poco più di un'ora di distanza nell'infausta satrapia di Ataturk.
Con quella sciarpa ho mangiato il miglior kebab della mia vita dirimpetto allo stade De Gerland di Lione e, causa medesima, ho buone ragioni per credere di aver rischiato la pelle a Marassi in data 31 ottobre 2004 (Sampdoria-Milan 0-1, per coincidenza ancora Sheva -uno che tutto sommato non era solito marcare così spesso!- ma a volte le circostanze...) perchè è ragionevole pensare che i pingui improperi di un pittoresco blucerchiato fossero riservati con così mite indulgenza proprio a me (e a Felice ovviamente). Ma la pelle l'ho rischiata anche a Milano quando in viale Bligny, a seguito di un beffardo derby clarenziano, un mesto tifoso nerazzurro non mi sembrò aver particolarmente gradito un mio docile e spassionato sorriso di commiserazione -noblesse oblige- ma poi, si sa come si risolvono queste questioni, è finita a birra, da lui pagata, e sigarette da me profusamente elargite che nemmeno durante il Risiko...
Un giorno (8 marzo 2005, Champions League, Milan-Manchester United 1-0) in Axum, un ardimentoso red devil mi propose, come da assodata consuetudine del tifo anglosassone, lo scambio della mia sciarpa con la sua (un'incantevole tubolare rossa con l'illustre sigla UTD in cubitali bianchi) ma io, con storico rifiuto, ho cordialmente declinato l'invito (causa difficoltosa padronanza dell'idioma inglese, non sono certo di quale effetto possa aver sortito la mia macaronica risposta) ripensando poi molto a lungo a quell'istante, con il vanto disingannato che vuole essere dei compagni di lungo corso per non aver mai tradito la consorte nonostante le incidentali e seducenti malie trascorse.
È scontato poi che io avessi la sciarpa -e ne sarebbero occorse altre sei- quando il 25 gennaio scorso (Coppa Italia, Milan-Roma 2-2) una fiabesca nevicata sotto i riflettori del Meazza restituì -dopo un caffè come si deve- un senso alla serata serata mia e di Andrea, Felice, Lorenzo e Cine, tutti degenti dopo quella bella trovata.
Ci sarebbero moltissimi altri ricordi legati a questa sciarpa e forse altri verranno, perchè credo che la indosserò ogniqualvolta allo stadio per qualche tempo ancora, almeno finché Maldini (insieme all'Ambroeus, unico reduce della formazione di quel Milan-Torino) non farà domanda di congedo dalla carica di capitano, dileguandosi dopo un saluto sommesso o tra gli sfarzi primaverili della Prospettiva Nevskij... ma no, anche questa in fondo è tutta un'altra storia...

sabato 1 dicembre 2007

Just flick to kick!

Andrea Piccaluga ha 43 anni e insegna Management alla Scuola superiore di studi economici Sant'Anna di Pisa. Ma ancora oggi, durante le riunioni di lavoro, qualche imprenditore o un insospettabile docente universitario gli chiede se fosse proprio lui quel ragazzino che nel 1978 era diventato celebre giocando a Subbuteo. «Avevo vinto la coppa del Mondo e in quel momento quel gioco era una follia collettiva» ricorda il professore. «Fui invitato per un mese in Inghilterra, dove il Subbuteo era stato inventato: ogni giorno mi portavano in un negozio di giocattoli o in un supermercato, e sfidavo qualsiasi bambino». Con un colpo di genio, il direttore marketing della Subbuteo, Jim Leng, aveva fatto assicurare il dito con cui quel quattordicenne genovese "calciava" gli omini di plastica, per una somma incredibilmente alta, diventata materia di leggende. Lo racconta Daniel Tatarsky (e Piccaluga lo conferma qui: «erano 150 milioni di lire, ma se io mi fossi infortunato, sarebbero stati loro a incassare il premio...») in un libro che, ripercorrendo la storia del Subbuteo dalla prima intuizione dell'ornitologo Peter Adolph all'ultimo tentativo dell'italiano Edilio Parodi di tenerlo in vita anche contro i videogiochi, è un monumento illustrato alla nostalgia. Nostalgia per un gioco semplice con il quale sono cresciute intere generazioni, e per un tempo in cui l'elettronica era ancora materia da fantascienza. Attorno a quel grande panno verde, steso su un tappeto per terra o stirato sopra il tavolo del tinello (quelli bravi nel fai-da-te lo incollavano su un foglio di compensato), si covavano nuove amicizie oppure si rompevano sul numero dei tocchi consentiti; si scambiavano opinioni su: come dare colpi a effetto; scatole di squadre dai colori esotici o ancora da dipingere; colle a presa rapida per rimettere in piedi giocatori azzoppati o decapitati da cadute rovinose. Scrive Tatarsky, un attore inglese dal curriculum bizzarro che è stato anche speaker della finale di calcio all'Olimpiade di Atene: «Alcuni ragazzi avevano i poster di Debbie Harry, altri di Freddie Mercury, ma il tabellone con le 190 squadre del Subbuteo superava tutti i confini sociali, culturali e geografici».

recensione di Carlo Annese (pubblicata su Sportweek, anno VIII, n. 46 -381-, 1 dicembre 2007) del volume: D. Tatarsky, Subbuteo. Storia illustrata della nostalgia, Isbn Edizioni, Milano 2007.

LA PARTITA RECORD
Il record mondiale di durata a Subbuteo appartiene a due ragazzi inglesi: Paul Chambers e Tim Peters. Nel dicembre 1986 giocarono ininterrottamente per 62 ore e sette minuti. Si sfidarono in 160 partite consecutive: lo Hull City di Tim segnò 83 gol; il Liverpool di Paul "soltanto" 60.