Caro Marco, sono trascorsi ormai tanti anni da quelli in cui, deo gratia, eri solito incantare l’intero pubblico dell’universo calcistico. Non mi voglio soffermare a lungo sui tuoi incommensurabili meriti calcistici, perché osservandoti molti hanno creduto che il calcio potesse divenire scienza perfetta e l'amena Utrecht un ridente idillio. Per merito tuo tutti ricordano che i basamenti dei pali del Camp Nou erano di nero pigmento nel maggio ottantanove, e grazie a te anche i siderali cross dal limite della trequarti, di Tassotti o di Muhren che fossero, in alcune circostanze riuscirono a sconfessare la loro congenita inefficacia calcistica. Mi mancano la tua garbata delicatezza, la tua educata eleganza, il tuo sorriso mai negato. Tu non sei mai scaduto in infelici finzioni (quanti perfetti e inutili buffoni…) perché le pedate, quelle vere, non te le hanno mai negate. E nemmeno quando le percosse sulle tibie risuonavano nelle tue ossa come gli urti dei gladi unni sulle insegne degli scudi imperiali recandoti un intollerabile dolore, ti trattenevi a chiedere con insolenza un provvedimento punitivo (pratica così impertinente) a scapito dell’avversario scortese. Del resto sapevi che quello era l’unico indelicato rimedio per tarparti le ali, e dev’essere per questo che con quei severi e granitici stopper non te la sei mai presa concretamente, limitandoti talora a qualche circoscritta e pittoresca locuzione vernacolare. La maglia sul campo da gioco non te la sei mai sfilata (una volta soltanto l’hai fatto, nel pruneto della fatal verona, e in quell’istante inconsciamente devo averti stimato meno del solito, ma è ragionevole pensare che -sia pur con qualche distinguo- avessi avuto tutte le attenuanti del caso per abbandonare il vessillo) perché l’essenziale sobrietà delle tue numerosissime esultanze dopo ogni rete segnata era la cosa più bella di te, con quel braccio compostamente sollevato e nessuna mancanza di rispetto per il disarmato avversario. Mi chiedo se chi oggi dopo ogni gol si improvvisa giullare di corte ti abbia mai visto giocare.
Io ero così piccolo, ma il tuo minimalista 'saltino' a piedi uniti prima di ogni rigore calciato lo ricordo bene. E voglio ricordarmi di quando, dopo una rovesciata bella quanto un Rembrandt, hai sorriso al prodigo Daniele per assicurargli che in realtà non era stato poi così faticoso segnare quattro gol in un unico incontro mentre a pochi metri di distanza lo sventurato Ravelli stramalediceva il giorno in cui scelse di diventare portiere. Certo, mi ricordo anche del tuo sconforto quando nella triste Baviera sei stato costretto alla sostituzione nell’atto finale della Coppa dei Campioni 1993 e dopo quel giorno, di non averti più rivisto indossare una maglia da gioco se non dopo oltre dieci anni quando, fresco quarantenne mai avvilito dal mal caduco, hai voluto ricordare agli amici più cari che i cigni non disimparano mai a librarsi in volo.
Con la maglia dei lancieri sembravi una longilinea crisalide, con quella rossonera uno splendido Achille e, come lui, pressoché insormontabile, con quella dei tulipani un architetto rinascimentale, qualificato innanzitutto nel progetto d’archi e chiavi di volta. E come era bella la maglia della tua nazionale! Un simulacro per un’intera generazione, così facilmente riscontrabile sui campi polverosi (o coperti di fango) di ogni oratorio milanese. Mi ricordo, mi ricordo: sempre arancioni contro bianchi, Olanda contro Germania! E non ho necessità di ricordare chi vincesse sistematicamente.
Con i blue-jeans, la camicia color salmone e la giacchetta di renna mi eri sembrato molto bello e raffinato dal secondo anello rosso, settore 211, fila 9, posto 28, prima che l’emozione riuscisse a rendere difficoltosa ogni percezione visiva. Quella sera hai maturato la saggezza che solo ai più grandi perviene, perché non sempre l’ottimismo della volontà va privilegiato sul pessimismo della ragione. Oggi gli inappuntabili abiti scuri si addicono perfettamente al lignaggio del tuo altisonante cognome che noi tutti -eccezion fatta per il compianto cabezón Sivori- pronunciavamo alla stessa maniera, incuranti dei mille fiamminghi calappi fonetici. L’accurata appariscenza della tua cravatta arancione è soltanto l’ultimo dei tuoi innumerabili colpi di classe, la classe che così indivisibilmente conviene alla nazionale che alleni con così larga dedizione.
Mi perdonerai se qualche volta, così piccolo e sprovveduto, ho raccolto tutte le mie ancora acerbe energie per magnificare le euclidee meraviglie di Rijkaard (del resto conosci la mia sensibilità per il suo distinto ruolo, forse mai più così solennemente interpretato) perchè inosservato sui banchi di scuola -paradossali anomalie calcistiche- a causa delle tue alchemiche trascendenze o delle simpatiche treccine di quel debosciato di Ruud. Mi perdonerai per quella volta nel sottopassaggio, quando per l’agognato autografo rincorsi proprio gli ardimentosi dioscuri (sto ancora aspettando che tu mi restituisca la penna Frank...) e così scosso dalle loro reali proporzioni fisiche non badai al tuo transito.
Vorrei che almeno tu, che del calcio sei stato aulico esegeta, non cedessi alle perseveranti sirene di Londra sponda blues, perché l’incanto del calcio inglese si respira altrove, e a Chelsea perlopiù non si odono che lontani echi, indefinite note di fondo di quello sfarzo confezionato ad Anfield, al vecchio Trafford o ad Highbury; a Stanford c’è spazio appena per qualche riga di statistica.
Vorrei che, conclusa la tua esperienza come commissario dell’arancia, ti recassi ad Amsterdam e restituissi gli antichi fasti all’aiacea legione. E vorrei che un giorno ti facessi riabbracciare dalla tua Milano. Sì, lo so, l’umidità mal si raccomanda alle cagionevoli caviglie dei cigni, e so che i più sprovveduti bravacci meneghini (non ti badar di loro, ma guarda e passa) potrebbero arrecarti sgradevoli fastidi chiosando un’improbabile e irriverente supremazia barbarica delle feroci discendenze germaniche -con appellativi cacofonici e dissonanti quali Lothar o Jürgen- sui maestri fiamminghi. Ma se soltanto sapessi quante volte negli ultimi trascorsi lustri ho ripensato a quella volta in cui mio padre ti votò alle elezioni politiche e ancor prima nel giugno ottantanove a quelle per il suffragio del Parlamento Europeo insieme a Galli, Tassotti, Maldini, Colombo, Costacurta, Baresi, Donadoni, Ancelotti, Gullit e Rijkaard, che con te calarono dal feudo lombardo disfandosi delle resistenze partenopee o marciarono trionfatori, magno gaudio, sulle rovine di Madrid e di Bucarest. E quante volte, nell’umano sconforto di una fredda gradinata, ho sentito dire che si ghe fusa stà il van basten…
mercoledì 31 ottobre 2007
lunedì 29 ottobre 2007
El hincha
Il 29 ottobre 1968, il Club Atletico Velez Sarsfield sconfisse il Racing Club per quattro reti a due. Al novantesimo di gioco, l'attaccante Omar Wehbe segnò il quarto gol per la squadra vincitrice che, dieci secondi dopo, si laureava campione nazionale di calcio per la prima volta nella sua storia. Alla memoria di mio padre, morto senza vedere il Velez Sarsfield campione.
Si tratta dell'incipit introduttivo del racconto El Hincha (Il tifoso) di Mempo Giardinelli, scrittore giornalista argentino nato nel 1947 a Resistencia e autore del romanzo La rivoluzione in bicicletta.
Il racconto è contenuto nella raccolta di prose calcistiche argentine Cuentos de fútbol (Mondadori, Milano 2002). Autori Mario Benedetti, Roberto Bolaño, Alfredo Bryche Echenique, Juan Manuel de Prada, Eduardo Galeano, Mempo Giardinelli, Julio Ramon Rybeiro, Hernan Rivera Latelier, Augusto Roa Bastos, Antonio Skármeta, Osvaldo Soriano e Jorge Valdano.
Si tratta dell'incipit introduttivo del racconto El Hincha (Il tifoso) di Mempo Giardinelli, scrittore giornalista argentino nato nel 1947 a Resistencia e autore del romanzo La rivoluzione in bicicletta.
Il racconto è contenuto nella raccolta di prose calcistiche argentine Cuentos de fútbol (Mondadori, Milano 2002). Autori Mario Benedetti, Roberto Bolaño, Alfredo Bryche Echenique, Juan Manuel de Prada, Eduardo Galeano, Mempo Giardinelli, Julio Ramon Rybeiro, Hernan Rivera Latelier, Augusto Roa Bastos, Antonio Skármeta, Osvaldo Soriano e Jorge Valdano.
sabato 27 ottobre 2007
En el nombre del pulpero
Poche squadre a Futbolandia vengono magnificate quanto il Club Atlético Penarol, fondato il 28 settembre 1891 a Montevideo (originariamente con il nome di Central Uruguay Railway Cricket Club) grazie al proselitismo della considerevole comunità italiana -perlopiù di origine piemontese- residente in Uruguay e all'immancabile iniziativa della legazione britannica (El Club Atlético Peñarol fue fundado el 28 de Setiembre de 1891, gracias al impulso de 118 empleados y obreros del Ferrocarril Central del Uruguay, de los cuales 72 eran de nacionalidad inglesa, 45 uruguayos y uno alemán).
Nel 1770 el pulpero Giovan Battista Crosa, maestro della corale di Pinerolo, si trasferì a Montevideo diventando in breve tempo uno dei più facoltosi possidenti terrieri della città. Intorno ai poderi di Crosa sorse il Barrio Penarol, in nome del decoro della natia cittadina piemontese.
Il Penarol ha vinto 40 titoli nazionali (45 se considerati i tioli vinti dal CURC prima della moderna qualificazione dell'equipo avvenuta il 14 marzo 1914), 5 coppe Libertadores (nelle prime due edizioni del 1960 e '61, nel '66, nell'82 e nell'87, sconfiggendo in finale rispettivamente l'Olimpia de Asuncion, il Palmeiras Sao Paulo, il River Plate, il Cobreloa Calama e l'America Cali) e 3 coppe Intercontinentali (1961, Benfica-Penarol 1-0/0-5; 1966, Penarol-Real Madrid 2-0/2-0; 1982, Penarol-Aston Villa 2-0).
Los colores amarillo y negro a franjas verticales de la indumentaria son tan viejos como el distintivo ferroviario, como el propio ferrocarril, y hacen honor al "Rocket", locomotora de Sthephenson, vencedora de una prueba de aptitud en 1829.
José Leandro Andrade, Alcides Ghiggia (autore della rete decisiva nella finale mondiale 1950, Uruguay-Brasile 2-1, al Maracana di Rio de Janeiro), Juan Alberto Schiaffino, Julio César Abbadie, Rodolfo Sansone, Obdulio Varela, Roque Máspoli, Luis Cubilla, Diego Perez, Carlos Borges, Braulio Castro, Cefelino Camacho, Victor Hugo Diogo, Julio Cesar Cortés, Pedro Rocha, Isabelino Gradìn, Diego Aguirre, Washington Ortuno, José Luis Chilavert e Ladislao Mazurkiewicz sono i mirasoles più celebri.
In Europa hanno giocato o militano attualmente gli aurinegros Paolo Montero, Josè Perdomo, Rubén Walter Paz, Carlos el pato Aguilera, Antonio Pacheco, Dario Silva, Federico Magallanes, Diego el cachavacha Forlan, Walter el rifle Pandiani, Jorge Casanova, Carlos Diogo, Pablo el canario Garcia, Guillermo Giacomazzi e Marcelo Zalayeta. Pepe Juan Alberto Schiaffino (undici anni e cinque titoli nazionali con il Penarol) ha giocato nel Milan dal 1954 al '60 (tre scudetti) e nella Roma per due stagioni (1961 e '62), vanta 21 presenze, 8 gol e il Mondiale 1950 con la Celeste e 4 presenze con la nazionale italiana ai mondiali del '58.
Il Penarol disputa gli incontri casalinghi del campionato nazionale all'Estadio Las Acasas, eccezion fatta per i superclassici con gli storici rivali del Nacional Montevideo, abitualmente giocati nell'Estadio Centenario -monumento del futbol mundial- e teatro, il 30 luglio 1930, della prima finale mondiale (Uruguay-Argentina 4-2). Il Centenario (così designato perchè inaugurato nel 1930, cent'anni dopo la promulgazione della Costituzione della Repubblica Uruguaiana) è lo stadio designato per tutti gli incontri casalinghi della Celeste.
Un giorno impresso nel mio vivo ricordo, in un silenzio carico di presenze ho incontrato un giovane uomo di grave sembianza e sovrana inquietudine su una strada polverosa di Los Canos de Meca. Aveva il viso di un pallore uniforme color tela greggia, con zigomi alti ed esposti, occhi scuri come l'abisso e lunghi capelli sciolti sulla schiena nerboruta. Avrei pensato di imbattermi in Kaiser Soze o in Martìn Fierro se non fosse stato per uno scudo gentilizio -vistoso blasone con undici stelle- tatuato sul torso scoperto, all'altezza del cuore incalzato da esagitate palpitazioni.
Ritengo senza soluzione di continuità che la sua unica animata fede si chiamasse Penarol.
sito ufficiale http://www.capenarol.com.uy/
Nel 1770 el pulpero Giovan Battista Crosa, maestro della corale di Pinerolo, si trasferì a Montevideo diventando in breve tempo uno dei più facoltosi possidenti terrieri della città. Intorno ai poderi di Crosa sorse il Barrio Penarol, in nome del decoro della natia cittadina piemontese.
Il Penarol ha vinto 40 titoli nazionali (45 se considerati i tioli vinti dal CURC prima della moderna qualificazione dell'equipo avvenuta il 14 marzo 1914), 5 coppe Libertadores (nelle prime due edizioni del 1960 e '61, nel '66, nell'82 e nell'87, sconfiggendo in finale rispettivamente l'Olimpia de Asuncion, il Palmeiras Sao Paulo, il River Plate, il Cobreloa Calama e l'America Cali) e 3 coppe Intercontinentali (1961, Benfica-Penarol 1-0/0-5; 1966, Penarol-Real Madrid 2-0/2-0; 1982, Penarol-Aston Villa 2-0).
Los colores amarillo y negro a franjas verticales de la indumentaria son tan viejos como el distintivo ferroviario, como el propio ferrocarril, y hacen honor al "Rocket", locomotora de Sthephenson, vencedora de una prueba de aptitud en 1829.
José Leandro Andrade, Alcides Ghiggia (autore della rete decisiva nella finale mondiale 1950, Uruguay-Brasile 2-1, al Maracana di Rio de Janeiro), Juan Alberto Schiaffino, Julio César Abbadie, Rodolfo Sansone, Obdulio Varela, Roque Máspoli, Luis Cubilla, Diego Perez, Carlos Borges, Braulio Castro, Cefelino Camacho, Victor Hugo Diogo, Julio Cesar Cortés, Pedro Rocha, Isabelino Gradìn, Diego Aguirre, Washington Ortuno, José Luis Chilavert e Ladislao Mazurkiewicz sono i mirasoles più celebri.
In Europa hanno giocato o militano attualmente gli aurinegros Paolo Montero, Josè Perdomo, Rubén Walter Paz, Carlos el pato Aguilera, Antonio Pacheco, Dario Silva, Federico Magallanes, Diego el cachavacha Forlan, Walter el rifle Pandiani, Jorge Casanova, Carlos Diogo, Pablo el canario Garcia, Guillermo Giacomazzi e Marcelo Zalayeta. Pepe Juan Alberto Schiaffino (undici anni e cinque titoli nazionali con il Penarol) ha giocato nel Milan dal 1954 al '60 (tre scudetti) e nella Roma per due stagioni (1961 e '62), vanta 21 presenze, 8 gol e il Mondiale 1950 con la Celeste e 4 presenze con la nazionale italiana ai mondiali del '58.
Il Penarol disputa gli incontri casalinghi del campionato nazionale all'Estadio Las Acasas, eccezion fatta per i superclassici con gli storici rivali del Nacional Montevideo, abitualmente giocati nell'Estadio Centenario -monumento del futbol mundial- e teatro, il 30 luglio 1930, della prima finale mondiale (Uruguay-Argentina 4-2). Il Centenario (così designato perchè inaugurato nel 1930, cent'anni dopo la promulgazione della Costituzione della Repubblica Uruguaiana) è lo stadio designato per tutti gli incontri casalinghi della Celeste.
Un giorno impresso nel mio vivo ricordo, in un silenzio carico di presenze ho incontrato un giovane uomo di grave sembianza e sovrana inquietudine su una strada polverosa di Los Canos de Meca. Aveva il viso di un pallore uniforme color tela greggia, con zigomi alti ed esposti, occhi scuri come l'abisso e lunghi capelli sciolti sulla schiena nerboruta. Avrei pensato di imbattermi in Kaiser Soze o in Martìn Fierro se non fosse stato per uno scudo gentilizio -vistoso blasone con undici stelle- tatuato sul torso scoperto, all'altezza del cuore incalzato da esagitate palpitazioni.
Ritengo senza soluzione di continuità che la sua unica animata fede si chiamasse Penarol.
sito ufficiale http://www.capenarol.com.uy/
giovedì 25 ottobre 2007
Act of Supremacy
di Paolo Pegoraro
Il calcio, nella sua accezione più moderna, nasce all’interno delle United Kingdom Public School e dei college inglesi della prima metà dell’Ottocento.
A inizio secolo i rampolli dei college, autentici ‘figli di papà’, praticavano uno sport profondamente diverso da quello a cui siamo abituati. Si trattava di uno sport molto violento, dal momento che qualsiasi tipologia di contatto fisico era tollerata. Parte integrante del gioco erano gli hacking, i calci alle tibie, che costituivano quasi una regola fondamentale del gioco, al pari dei passaggi o dei tiri verso la porta. Uno sport pertanto elitario ed estremamente violento, in cui gli studenti più ‘anziani’ e robusti primeggiavano grazie alla loro prestanza fisica nei confronti degli allievi più giovani; a poco servivano i rimproveri degli educatori che, in quanto esponenti di una classe sociale inferiore rispetto a quelle dei loro allievi, venivano sprezzati.
Le cose cambiarono radicalmente quando la borghesia industriale assunse il controllo dei college: venne ripristinata l’autorità degli insegnanti e migliorata la gestione delle attività ricreative. Lo sport abbandona così il suo carattere elitario acquisendo una dimensione più popolare. Sir Thomas Arnold, rettore dell’Università di Rugby, incoraggia un profondo rinnovamento del gioco del calcio, volto a eliminarne gli aspetti più brutali e violenti. Eton e Harrow -due tra i più prestigiosi college inglesi- aboliscono i temibili hacking e proibiscono l’uso delle mani durante il gioco. Successivamente viene istituito il ruolo del goalkeeper e vengono regolamentate le dimensioni delle porte e dei campi da gioco.
La data cruciale per la nascita del calcio moderno è il 26 ottobre 1863, quando nella Freemason Tavern di Londra si incontrano i delegati dei principali college inglesi con l’obbiettivo di uniformare definitivamente tutti i regolamenti del gioco del calcio. Da una parte ci sono i sostenitori dell’uso delle mani e di un certo grado di violenza, dall’altra i seguaci di Sir Thomas Arnold, promotori di un gioco meno brutale e dell’abolizione dell’utilizzo delle mani. Si verifica lo scisma: i delegati della prima corrente di pensiero danno vita alla Rugby Football Union, quelli della seconda fondano la Football Association.
Il calcio, nella sua accezione più moderna, nasce all’interno delle United Kingdom Public School e dei college inglesi della prima metà dell’Ottocento.
A inizio secolo i rampolli dei college, autentici ‘figli di papà’, praticavano uno sport profondamente diverso da quello a cui siamo abituati. Si trattava di uno sport molto violento, dal momento che qualsiasi tipologia di contatto fisico era tollerata. Parte integrante del gioco erano gli hacking, i calci alle tibie, che costituivano quasi una regola fondamentale del gioco, al pari dei passaggi o dei tiri verso la porta. Uno sport pertanto elitario ed estremamente violento, in cui gli studenti più ‘anziani’ e robusti primeggiavano grazie alla loro prestanza fisica nei confronti degli allievi più giovani; a poco servivano i rimproveri degli educatori che, in quanto esponenti di una classe sociale inferiore rispetto a quelle dei loro allievi, venivano sprezzati.
Le cose cambiarono radicalmente quando la borghesia industriale assunse il controllo dei college: venne ripristinata l’autorità degli insegnanti e migliorata la gestione delle attività ricreative. Lo sport abbandona così il suo carattere elitario acquisendo una dimensione più popolare. Sir Thomas Arnold, rettore dell’Università di Rugby, incoraggia un profondo rinnovamento del gioco del calcio, volto a eliminarne gli aspetti più brutali e violenti. Eton e Harrow -due tra i più prestigiosi college inglesi- aboliscono i temibili hacking e proibiscono l’uso delle mani durante il gioco. Successivamente viene istituito il ruolo del goalkeeper e vengono regolamentate le dimensioni delle porte e dei campi da gioco.
La data cruciale per la nascita del calcio moderno è il 26 ottobre 1863, quando nella Freemason Tavern di Londra si incontrano i delegati dei principali college inglesi con l’obbiettivo di uniformare definitivamente tutti i regolamenti del gioco del calcio. Da una parte ci sono i sostenitori dell’uso delle mani e di un certo grado di violenza, dall’altra i seguaci di Sir Thomas Arnold, promotori di un gioco meno brutale e dell’abolizione dell’utilizzo delle mani. Si verifica lo scisma: i delegati della prima corrente di pensiero danno vita alla Rugby Football Union, quelli della seconda fondano la Football Association.
lunedì 22 ottobre 2007
Where it all began
Futbolandia celebra il centocinquantesimo anniversario di fondazione dello Sheffield F.C., the world's first football club, costituito nella città del Northern England il 24 ottobre 1857 con un attestato di nascita firmato Nathaniel Creswick e William Prest.
La dimensione dello Sheffield F.C. è quella di una società dilettantistica: oggi milita in Northern Premier League Division One South, l'ottava serie inglese. Di maggior levatura le altre due squadre cittadine: lo Sheffield Wednesday (fondato nel 1867, quattro campionati e tre FA Cup, attualmente in seconda divisione inglese) e lo Sheffield United (dal 1889 un campionato e tre FA Cup, oggi in First Division).
Nel 2004 è stata conferita allo Sheffield F.C. la medaglia dell'Ordine di Merito della Fifa (FIFA Order of Merit), onorificenza di grande prestigio e condivisa unicamente con il Real Madrid.
Eccezion fatta per gli antichi club di Her Majesty Queen Elizabeth (in Scozia il Kilmarnock, tre coppe nazionali, è stato fondato nel 1869), in Europa il Monaco 1860 è la squadra di più antica fondazione (ma, trattandosi di una società polisportiva, la sezione calcistica risale al 1899, tre coppe di Germania), mentre il Recreativo de Huelva, ciudad de la frontera, è il più antico club spagnolo (fondato nel 1889, lo scorso anno il Recre ha ottenuto il suo miglior piazzamento in Liga, classificandosi ottavo e imponendosi al Santiago Bernabeu per tre reti a zero, al Riazor de La Coruna per cinque reti a due). A Genova, il 7 settembre 1893, nasce in una sala del consolato britannico il Genoa Cricket and Football Club.
Siti ufficiali:
http://www.sheffieldfc.com/
http://www.kilmarnockfc.premiumtv.co.uk/page/Home
http://www.tsv1860.de/?id=7746
http://www.recreativohuelva.com/
http://www.genoacfc.it/
La dimensione dello Sheffield F.C. è quella di una società dilettantistica: oggi milita in Northern Premier League Division One South, l'ottava serie inglese. Di maggior levatura le altre due squadre cittadine: lo Sheffield Wednesday (fondato nel 1867, quattro campionati e tre FA Cup, attualmente in seconda divisione inglese) e lo Sheffield United (dal 1889 un campionato e tre FA Cup, oggi in First Division).
Nel 2004 è stata conferita allo Sheffield F.C. la medaglia dell'Ordine di Merito della Fifa (FIFA Order of Merit), onorificenza di grande prestigio e condivisa unicamente con il Real Madrid.
Eccezion fatta per gli antichi club di Her Majesty Queen Elizabeth (in Scozia il Kilmarnock, tre coppe nazionali, è stato fondato nel 1869), in Europa il Monaco 1860 è la squadra di più antica fondazione (ma, trattandosi di una società polisportiva, la sezione calcistica risale al 1899, tre coppe di Germania), mentre il Recreativo de Huelva, ciudad de la frontera, è il più antico club spagnolo (fondato nel 1889, lo scorso anno il Recre ha ottenuto il suo miglior piazzamento in Liga, classificandosi ottavo e imponendosi al Santiago Bernabeu per tre reti a zero, al Riazor de La Coruna per cinque reti a due). A Genova, il 7 settembre 1893, nasce in una sala del consolato britannico il Genoa Cricket and Football Club.
Siti ufficiali:
http://www.sheffieldfc.com/
http://www.kilmarnockfc.premiumtv.co.uk/page/Home
http://www.tsv1860.de/?id=7746
http://www.recreativohuelva.com/
http://www.genoacfc.it/
domenica 21 ottobre 2007
Il rigore più lungo del mondo IV
di Osvaldo Soriano
Alle tre del pomeriggio le due squadre scesero in campo vestite come se dovessero giocare una vera partita. Herminio Silva aveva la divisa nera, scolorita ma in ordine, e quando tutti furono schierati a centrocampo andò diritto verso il Cholo Rivero che gli aveva dato il pugno la domenica prima e lo espulse. Non era ancora stato inventato il cartellino rosso e Herminio Silva indicava la bocca del tunnel con mano ferma da cui pendeva il fischietto. Alla fine, la polizia portò via a spintoni il Cholo che sarebbe voluto rimanere a vedere il rigore. Allora l'arbitro andò fino alla porta con la palla stretta contro il fianco, contò dodici passi e la sistemò a terra. Il Gato Diaz si era pettinato con la brillantina e la testa gli risplendeva come una pentola di alluminio, e quando si dispose sulla riga di calce e prese a strofinarsi le mani nude cominciammo a scommettere su quale lato avrebbe scelto Constante Gauna.
Lungo la strada avevano interrotto la circolazione e tutti aspettavano quell'istante perchè erano dieci anni che il Deportivo Belgrano non perdeva una coppa nè il campionato. Anche i poliziotti volevano sapere, e così lasciarono che la catena di staffetta si dislocasse lungo tre chilometri e le notizie correvano di bocca in bocca ritmate dalle contrazioni del fiatone.
Alle tre e mezzo Constante Gauna, magro e muscoloso, si avvicinò per sistemare la palla. Aveva tirato tante volte quel rigore -raccontò poi- che l'avrebbe rifatto in ogni momento della sua vita, sveglio o addormentato.
Herminio si dispose a metà strada tra la porta e il pallone, portò il fischietto alla bocca e soffiò con tutte le sue forze. Era così nervoso e il sole aveva tanto martellato sulla sua nuca che quando il pallone partì in direzione della porta sentì gli occhi rovesciarglisi all'indietro e cadde di spalle. Diaz fece un passo in avanti e si buttò sulla destra. Il pallone partì roteando verso il centro della porta e Gauna indovinò subito che la gambe del Gato Diaz sarebbero riuscite a deviarlo di lato. Il Gato pensò al ballo della sera, alla gloria tardiva, al fatto che qualcuno sarebbe dovuto accorrere per mettere in corner il pallone che era rimasto a rotolare in area.
Mirabelli, il Petiso, arrivò per primo e la mise fuori, contro la rete metallica, ma Herminio Silva non poteva vederlo perchè stava a terra, in preda a un attacco di epilessia. Quando tutta l'Estrella Polar si rovesciò sopra al Gato Diaz per festeggiare, il guardalinee corse verso Herminio Silva con la bandierina alzata e dal muretto su cui eravamo seduti lo sentimmo gridare: «Non vale! Non vale!».
La notizia corse di bocca in bocca, gioiosa. La respinta del Gato e lo svenimento dell'arbitro. A quel punto sulla strada tutti aprirono damigiane di vino e cominciarono a festeggiare, sebbene il "non vale" continuasse ad arrivare balbettato dai messaggeri con una smorfia attonita.
Rialzatosi sconvolto, Silva volle sapere come prima cosa "che è successo" e quando glielo raccontarono scosse la testa e disse che bisognava tirare di nuovo perchè lui non era stato presente e il regolamento prescrive che la partita non si possa giocare con un arbitro svenuto.
Allora il Gato Diaz allontanò quelli che volevano pestare il venditore di biglietti della lotteria al Deportivo Belgrano e disse che bisognava sbrigarsi perchè la sera aveva un appuntamento e una promessa, e andò di nuovo a sistemarsi in porta.
Constante Gauna non doveva avere molta fiducia in sè stesso perchè propose a Padìn di tirare e solo dopo andò verso la palla mentre il guardalinee aiutava Herminio a stare in piedi.
Il tirò arrivò a sinistra e il Gato Diaz si buttò nella stessa direzione con un'eleganza e una sicurezza che non mostrò mai più. Constante Gauna alzò gli ochhi al cielo e cominciò a piangere.
Noi saltammo giù dal muretto e andammo a guardare da vicino Diaz, il vecchio, che rimirava il pallone che aveva tra le mani come se avesse estratto la pallina vincente alla lotteria.
Due anni dopo, quando il Gato era ormai un rudere e io un giovanotto insolente, me lo trovai ancora di fronte, a dodici passi di distanza, e lo vidi immenso, ranicchiato sulla punta dei piedi, con le dita aperte e lunghe. Aveva una fede al dito che non era della Rubia Ferreira ma della sorella del Cholo Rivero. Evitai di guardarlo negli occhi e cambiai piede; poi tirai di sinistro, basso, sapendo che non l'avrebbe parato perchè era molto rigido e portava il peso della gloria. Quando andai a raccogliere il pallone nella porta, si stava rialzando come un cane bastonato.
«Bene, ragazzo» mi disse. «Un giorno andrai in giro da queste parti a raccontare che hai segnato un gol al Gato Diaz, ma nessuno ti crederà.»
El penal mas largo del mundo
Tratto da: Osvaldo Soriano, Pensare con i piedi, Einaudi, Torino 1995.
Alle tre del pomeriggio le due squadre scesero in campo vestite come se dovessero giocare una vera partita. Herminio Silva aveva la divisa nera, scolorita ma in ordine, e quando tutti furono schierati a centrocampo andò diritto verso il Cholo Rivero che gli aveva dato il pugno la domenica prima e lo espulse. Non era ancora stato inventato il cartellino rosso e Herminio Silva indicava la bocca del tunnel con mano ferma da cui pendeva il fischietto. Alla fine, la polizia portò via a spintoni il Cholo che sarebbe voluto rimanere a vedere il rigore. Allora l'arbitro andò fino alla porta con la palla stretta contro il fianco, contò dodici passi e la sistemò a terra. Il Gato Diaz si era pettinato con la brillantina e la testa gli risplendeva come una pentola di alluminio, e quando si dispose sulla riga di calce e prese a strofinarsi le mani nude cominciammo a scommettere su quale lato avrebbe scelto Constante Gauna.
Lungo la strada avevano interrotto la circolazione e tutti aspettavano quell'istante perchè erano dieci anni che il Deportivo Belgrano non perdeva una coppa nè il campionato. Anche i poliziotti volevano sapere, e così lasciarono che la catena di staffetta si dislocasse lungo tre chilometri e le notizie correvano di bocca in bocca ritmate dalle contrazioni del fiatone.
Alle tre e mezzo Constante Gauna, magro e muscoloso, si avvicinò per sistemare la palla. Aveva tirato tante volte quel rigore -raccontò poi- che l'avrebbe rifatto in ogni momento della sua vita, sveglio o addormentato.
Herminio si dispose a metà strada tra la porta e il pallone, portò il fischietto alla bocca e soffiò con tutte le sue forze. Era così nervoso e il sole aveva tanto martellato sulla sua nuca che quando il pallone partì in direzione della porta sentì gli occhi rovesciarglisi all'indietro e cadde di spalle. Diaz fece un passo in avanti e si buttò sulla destra. Il pallone partì roteando verso il centro della porta e Gauna indovinò subito che la gambe del Gato Diaz sarebbero riuscite a deviarlo di lato. Il Gato pensò al ballo della sera, alla gloria tardiva, al fatto che qualcuno sarebbe dovuto accorrere per mettere in corner il pallone che era rimasto a rotolare in area.
Mirabelli, il Petiso, arrivò per primo e la mise fuori, contro la rete metallica, ma Herminio Silva non poteva vederlo perchè stava a terra, in preda a un attacco di epilessia. Quando tutta l'Estrella Polar si rovesciò sopra al Gato Diaz per festeggiare, il guardalinee corse verso Herminio Silva con la bandierina alzata e dal muretto su cui eravamo seduti lo sentimmo gridare: «Non vale! Non vale!».
La notizia corse di bocca in bocca, gioiosa. La respinta del Gato e lo svenimento dell'arbitro. A quel punto sulla strada tutti aprirono damigiane di vino e cominciarono a festeggiare, sebbene il "non vale" continuasse ad arrivare balbettato dai messaggeri con una smorfia attonita.
Rialzatosi sconvolto, Silva volle sapere come prima cosa "che è successo" e quando glielo raccontarono scosse la testa e disse che bisognava tirare di nuovo perchè lui non era stato presente e il regolamento prescrive che la partita non si possa giocare con un arbitro svenuto.
Allora il Gato Diaz allontanò quelli che volevano pestare il venditore di biglietti della lotteria al Deportivo Belgrano e disse che bisognava sbrigarsi perchè la sera aveva un appuntamento e una promessa, e andò di nuovo a sistemarsi in porta.
Constante Gauna non doveva avere molta fiducia in sè stesso perchè propose a Padìn di tirare e solo dopo andò verso la palla mentre il guardalinee aiutava Herminio a stare in piedi.
Il tirò arrivò a sinistra e il Gato Diaz si buttò nella stessa direzione con un'eleganza e una sicurezza che non mostrò mai più. Constante Gauna alzò gli ochhi al cielo e cominciò a piangere.
Noi saltammo giù dal muretto e andammo a guardare da vicino Diaz, il vecchio, che rimirava il pallone che aveva tra le mani come se avesse estratto la pallina vincente alla lotteria.
Due anni dopo, quando il Gato era ormai un rudere e io un giovanotto insolente, me lo trovai ancora di fronte, a dodici passi di distanza, e lo vidi immenso, ranicchiato sulla punta dei piedi, con le dita aperte e lunghe. Aveva una fede al dito che non era della Rubia Ferreira ma della sorella del Cholo Rivero. Evitai di guardarlo negli occhi e cambiai piede; poi tirai di sinistro, basso, sapendo che non l'avrebbe parato perchè era molto rigido e portava il peso della gloria. Quando andai a raccogliere il pallone nella porta, si stava rialzando come un cane bastonato.
«Bene, ragazzo» mi disse. «Un giorno andrai in giro da queste parti a raccontare che hai segnato un gol al Gato Diaz, ma nessuno ti crederà.»
El penal mas largo del mundo
Tratto da: Osvaldo Soriano, Pensare con i piedi, Einaudi, Torino 1995.
Il rigore più lungo del mondo III
di Osvaldo Soriano
Mercoledì marinammo la scuola e andammo nel paese vicino a curiosare. Il circolo era chiuso e tutti gli uomini si erano riuniti sul campo, tra le dune. Avevano formato una lunga fila per battere i rigori contro il Gato Diaz. Tutti tirarono il loro rigore e il Gato ne parò parecchi perchè li battevano con ciabatte e scarpe da passeggio. Un soldato bassino, taciturno, che se ne stava in fila, sparò un tiro con la punta dell'anfibio militare che quasi sradicò la rete.
Sul far della sera tornarono in paese, aprirono il circolo e si misero a giocare a carte. Diaz rimase tutta la sera senza parlare, finchè dopo mangiato s'infilò lo stuzzicadenti in bocca e disse:
«Constante li tira a destra.»
«Sempre» disse il presidente della squadra.
«Ma lui sa che io so.»
«Allora siamo fottuti.»
«Sì, ma io so che lui sa» disse il Gato.
«Allora buttati subito a sinistra» disse uno di quelli seduti a tavola.
«No. Lui sa che io so che lui sa» disse il Gato Diaz, e si alzò per andare a dormire.
«Il Gato è sempre più strano» disse il presidente della squadra nel vederlo uscire pensieroso, camminando piano.
Martedì non andò all'allenamento e nemmeno mercoledì. Giovedì, quando lo trovarono che camminava sopra i binari del treno, parlava da solo e lo seguiva un cane dalla coda mozzata.
«Lo pari?» gli domandò, ansioso, il garzone del ciclista.
«Non lo so. Che cosa cambia per me?» domandò.
«Che ci proviamo, Gato. Glielo diamo nel culo a quelle checche del Belgramo.»
«Io ci provo quando la Rubia Ferreira mi dirà che mi vuole bene» disse e fischiò al cane per tornarsene a casa.
Venerdì, la Rubia Ferreira badava come sempre alla merceria quando il sindaco entrò con un mazzo di fiori e con un sorriso largo come un'anguria aperta.
«Questi te li manda il Gato Diaz e fino a giovedì tu devi dire che è il tuo fidanzato.»
«Poveretto» disse la donna con una smorfia e nemmeno li guardò, quei fiori che erano arrivati da Neuquèn con l'autobus delle dieci e mezzo.
La sera andarono al cinema insieme. Nell'intervallo il Gato uscì nell'atrio per fumare e la Rubia Ferreira rimase sola nella penombra, con la borsa sulla gonna, a leggere cento volte il programma senza alzare lo sguardo.
Sabato pomeriggio il Gato Diaz chiese in prestito due biciclette e andarono a fare una passeggiata sulla riva del fiume. Mentre iniziava il pomeriggio cercò di baciarla ma lei girò la faccia e disse che forse gliel'avrebbe permesso domenica sera, se parava il rigore, al ballo.
«E io come faccio a saperlo?» disse il Gato.
«A sapere che cosa?»
«Se mi devo buttare da quella parte.»
«In questa vita non si sa mai chi inganna e chi è ingannato» disse lei.
«E se non lo paro?» domandò il Gato.
«Allora vuol dire che non mi vuoi bene» rispose la Rubia, e tornarono in paese.
continua...
Mercoledì marinammo la scuola e andammo nel paese vicino a curiosare. Il circolo era chiuso e tutti gli uomini si erano riuniti sul campo, tra le dune. Avevano formato una lunga fila per battere i rigori contro il Gato Diaz. Tutti tirarono il loro rigore e il Gato ne parò parecchi perchè li battevano con ciabatte e scarpe da passeggio. Un soldato bassino, taciturno, che se ne stava in fila, sparò un tiro con la punta dell'anfibio militare che quasi sradicò la rete.
Sul far della sera tornarono in paese, aprirono il circolo e si misero a giocare a carte. Diaz rimase tutta la sera senza parlare, finchè dopo mangiato s'infilò lo stuzzicadenti in bocca e disse:
«Constante li tira a destra.»
«Sempre» disse il presidente della squadra.
«Ma lui sa che io so.»
«Allora siamo fottuti.»
«Sì, ma io so che lui sa» disse il Gato.
«Allora buttati subito a sinistra» disse uno di quelli seduti a tavola.
«No. Lui sa che io so che lui sa» disse il Gato Diaz, e si alzò per andare a dormire.
«Il Gato è sempre più strano» disse il presidente della squadra nel vederlo uscire pensieroso, camminando piano.
Martedì non andò all'allenamento e nemmeno mercoledì. Giovedì, quando lo trovarono che camminava sopra i binari del treno, parlava da solo e lo seguiva un cane dalla coda mozzata.
«Lo pari?» gli domandò, ansioso, il garzone del ciclista.
«Non lo so. Che cosa cambia per me?» domandò.
«Che ci proviamo, Gato. Glielo diamo nel culo a quelle checche del Belgramo.»
«Io ci provo quando la Rubia Ferreira mi dirà che mi vuole bene» disse e fischiò al cane per tornarsene a casa.
Venerdì, la Rubia Ferreira badava come sempre alla merceria quando il sindaco entrò con un mazzo di fiori e con un sorriso largo come un'anguria aperta.
«Questi te li manda il Gato Diaz e fino a giovedì tu devi dire che è il tuo fidanzato.»
«Poveretto» disse la donna con una smorfia e nemmeno li guardò, quei fiori che erano arrivati da Neuquèn con l'autobus delle dieci e mezzo.
La sera andarono al cinema insieme. Nell'intervallo il Gato uscì nell'atrio per fumare e la Rubia Ferreira rimase sola nella penombra, con la borsa sulla gonna, a leggere cento volte il programma senza alzare lo sguardo.
Sabato pomeriggio il Gato Diaz chiese in prestito due biciclette e andarono a fare una passeggiata sulla riva del fiume. Mentre iniziava il pomeriggio cercò di baciarla ma lei girò la faccia e disse che forse gliel'avrebbe permesso domenica sera, se parava il rigore, al ballo.
«E io come faccio a saperlo?» disse il Gato.
«A sapere che cosa?»
«Se mi devo buttare da quella parte.»
«In questa vita non si sa mai chi inganna e chi è ingannato» disse lei.
«E se non lo paro?» domandò il Gato.
«Allora vuol dire che non mi vuoi bene» rispose la Rubia, e tornarono in paese.
continua...
sabato 20 ottobre 2007
Il rigore più lungo del mondo II
di Osvaldo Soriano
L'ultimo scontro divenne storico a causa del rigore. Lo stadio era tutto esaurito e lo erano anche i tetti delle case vicine e il paese aspettava che il Deportivo Belgrano, giocando in casa, replicasse almeno i sette gol dell'andata. Il giorno era fresco e assolato e le mele cominciavano a colorirsi sugli alberi. L'Estrella Polar aveva portato oltre cinquecento tifosi che presero d'assalto la tribuna e i pompieri dovettero tirar fuori gli idranti per farli stare calmi. L'arbitro che fischiò il rigore era Herminio Silva, un epilettico che vendeva biglietti della lotteria nel circolo locale, e tutti quanti capirono che si stava giocando il lavoro quando al quarantesimo del secondo tempo si era ancora sull'uno a uno e non aveva fischiato la massima punizione, anche se quelli del Deportivo Belgrano entravano a tuffo nell'aria dell'Estrella Polar e facevano capriole e salti mortali per impressionarlo. Sul pareggio la squadra locale era campione e Herminio Silva voleva conservare il rispetto di sè e non concedeva il rigore perchè non c'era fallo.
Ma al quarantaduesimo rimanemmo tutti a bocca aperta quando la mezz'ala sinistra dell'Estrella Polar infilò una punizione da molto lontano e portò la squadra ospite al due a uno. Allora sì che Herminio Silva pensò al suo lavoro e allungò la partita fino a quando Padìn entrò in area e appena gli si avicinò un difensore fischiò. Fece uscire dal fischietto un suono stridulo, imponente, e indicò il punto del rigore. A quell'epoca il luogo dell'esecuzione non era segnato con il dischetto bianco e bisognava contare dodici passi da uomo. Herminio Silva non riuscì nemmeno a raccolgiere il pallone perchè l'ala destra dell'Estrella Polar, Rivero, detto el Cholo, cioè il Meticcio, lo stese con un pugno sul naso. La rissa fu così lunga che scese la sera e non ci fu modo di sgomberare il campo nè di risvegliare Herminio Silva. Il commissario, con una lanterna accesa, sospese la partita e diede ordine di sparare in aria. Quella sera il comando militare decretò lo stato di emergenza, o qualcosa del genere, e fece preparare un treno per allontanare dal paese tutti quelli che non sembravano del posto.Secondo il tribunale della Lega, che venne riunito il martedì seguente, si dovevano giocare ancora venti secondi a partire dall'esecuzione del calcio di rigore, e quel match privato tra Constante Gauna, il cannoniere, e il Gato Diaz in porta, avrebbe avuto luogo la domenica dopo, sullo stesso campo, a cancelli chiusi. Così quel rigore durò una settimana ed è, se nessuno mi dimostra il contrario, il più lungo della storia.
continua...
L'ultimo scontro divenne storico a causa del rigore. Lo stadio era tutto esaurito e lo erano anche i tetti delle case vicine e il paese aspettava che il Deportivo Belgrano, giocando in casa, replicasse almeno i sette gol dell'andata. Il giorno era fresco e assolato e le mele cominciavano a colorirsi sugli alberi. L'Estrella Polar aveva portato oltre cinquecento tifosi che presero d'assalto la tribuna e i pompieri dovettero tirar fuori gli idranti per farli stare calmi. L'arbitro che fischiò il rigore era Herminio Silva, un epilettico che vendeva biglietti della lotteria nel circolo locale, e tutti quanti capirono che si stava giocando il lavoro quando al quarantesimo del secondo tempo si era ancora sull'uno a uno e non aveva fischiato la massima punizione, anche se quelli del Deportivo Belgrano entravano a tuffo nell'aria dell'Estrella Polar e facevano capriole e salti mortali per impressionarlo. Sul pareggio la squadra locale era campione e Herminio Silva voleva conservare il rispetto di sè e non concedeva il rigore perchè non c'era fallo.
Ma al quarantaduesimo rimanemmo tutti a bocca aperta quando la mezz'ala sinistra dell'Estrella Polar infilò una punizione da molto lontano e portò la squadra ospite al due a uno. Allora sì che Herminio Silva pensò al suo lavoro e allungò la partita fino a quando Padìn entrò in area e appena gli si avicinò un difensore fischiò. Fece uscire dal fischietto un suono stridulo, imponente, e indicò il punto del rigore. A quell'epoca il luogo dell'esecuzione non era segnato con il dischetto bianco e bisognava contare dodici passi da uomo. Herminio Silva non riuscì nemmeno a raccolgiere il pallone perchè l'ala destra dell'Estrella Polar, Rivero, detto el Cholo, cioè il Meticcio, lo stese con un pugno sul naso. La rissa fu così lunga che scese la sera e non ci fu modo di sgomberare il campo nè di risvegliare Herminio Silva. Il commissario, con una lanterna accesa, sospese la partita e diede ordine di sparare in aria. Quella sera il comando militare decretò lo stato di emergenza, o qualcosa del genere, e fece preparare un treno per allontanare dal paese tutti quelli che non sembravano del posto.Secondo il tribunale della Lega, che venne riunito il martedì seguente, si dovevano giocare ancora venti secondi a partire dall'esecuzione del calcio di rigore, e quel match privato tra Constante Gauna, il cannoniere, e il Gato Diaz in porta, avrebbe avuto luogo la domenica dopo, sullo stesso campo, a cancelli chiusi. Così quel rigore durò una settimana ed è, se nessuno mi dimostra il contrario, il più lungo della storia.
continua...
Il rigore più lungo del mondo I
di Osvaldo Soriano
Il rigore più fantastico di cui io abbia notizia è stato tirato nel 1958 in un posto sperduto di Valle de Rio Negro, una domenica pomeriggio in uno stadio vuoto. Estrella Polar era un circolo con i biliardi e i tavolini per il gioco delle carte, un ritrovo da ubriachi lungo una strada di terra che finiva sulla sponda del fiume. Aveva una squadra di calcio che partecipava al campionato di Valle perchè di domenica non c'era altro da fare e il vento portava con sè la sabbia dalle dune e il polline dalle fattorie.
I giocatori sono sempre gli stessi o i fratelli degli stessi. Quando avevo quindici anni, loro ne avevano trenta e a me sembravano vecchissimi. Diaz, il portiere, ne aveva quasi quaranta e i capelli bianchi che gli ricadevano sulla fronte da indio araucano. Alla coppa partecipavano sedici squadre e l'Estrella Polar finiva sempre dopo il decimo posto. Credo che nel 1957 si fossero piazzati al tredicesimo posto e tornavano a casa cantando, con la maglia rossa ben ripiegata nella borsa perchè era l'unica che avessero. Nel 1958 avevano cominciato a vincere per uno a zero con l'Escudo Chileno, un'altra squadra miseranda. Nessuno ci badò. Invece, un mese dopo, quando avevano vinto quattro partite di seguito ed erano in testa al torneo, nei dodici paesi di Valle si cominciò a parlare di loro.
Le vittorie erano state tutte per un solo gol, ma bastavano a far rimanere il Deportivo Belgrano, l'eterno campione, la squadra di Padìn, di Constante Gauna e di Tata Cardiles, al secondo posto con un punto di distacco. I campi si riempivano per vedere l'Estrella Polar finalmente perdere. Erano lenti come somari e pesanti come armadi, ma marcavano a uomo e quando non ricevevano la palla gridavano come matti. Il pubblico si divertiva e noi, che giocavamo il sabato perchè eravamo più piccoli, non riuscivamo a spiegarci come potessero vincere se giocavano così male.
Davano e ricevevano colpi con tale lealtà e con tale entusiasmo che dovevano appoggiarsi gli uni agli altri per uscire dal campo mentre la gente li applaudiva per l'uno a zero e portava loro bottiglie di vino messe al fresco sotto la terra umida. La sera facevano festa nel bordello di Santa Ana e la Gorda Zulema si lamentava perchè le mangiavano le poche cose che conservava nella ghiacciaia.
Erano diventati l'attrazione del paese e a loro tutto era consentito. I vecchi li raccoglievano nei bar quando bevevano troppo e cominciavano ad attaccar briga; i commercianti li omaggiavano di qualche giocattolo e di caramelle per bambini, e al cinema le ragazze accettavano carezze al di sopra delle ginocchia. Fuori dal paese, nessuno li prendeva sul serio, neppure quando avevano vinto con l'Atletico San Martìn per due a uno. Nel pieno dell'euforia furono sconfitti come tutti quanti a Barda del Medio, e sul finire dell'andata persero il primo posto quando il Deportivo Belgrano li sistemò con sette gol. Tutti credemmo, allora, che la normalità fosse stata ristabilita. Ma la domenica dopo vinsero per uno a zero e continuarono nella loro litania di laboriose, orrende vittorie e arrivarono alla primavera con un solo punto in meno rispetto ai campioni.
continua...
Il rigore più fantastico di cui io abbia notizia è stato tirato nel 1958 in un posto sperduto di Valle de Rio Negro, una domenica pomeriggio in uno stadio vuoto. Estrella Polar era un circolo con i biliardi e i tavolini per il gioco delle carte, un ritrovo da ubriachi lungo una strada di terra che finiva sulla sponda del fiume. Aveva una squadra di calcio che partecipava al campionato di Valle perchè di domenica non c'era altro da fare e il vento portava con sè la sabbia dalle dune e il polline dalle fattorie.
I giocatori sono sempre gli stessi o i fratelli degli stessi. Quando avevo quindici anni, loro ne avevano trenta e a me sembravano vecchissimi. Diaz, il portiere, ne aveva quasi quaranta e i capelli bianchi che gli ricadevano sulla fronte da indio araucano. Alla coppa partecipavano sedici squadre e l'Estrella Polar finiva sempre dopo il decimo posto. Credo che nel 1957 si fossero piazzati al tredicesimo posto e tornavano a casa cantando, con la maglia rossa ben ripiegata nella borsa perchè era l'unica che avessero. Nel 1958 avevano cominciato a vincere per uno a zero con l'Escudo Chileno, un'altra squadra miseranda. Nessuno ci badò. Invece, un mese dopo, quando avevano vinto quattro partite di seguito ed erano in testa al torneo, nei dodici paesi di Valle si cominciò a parlare di loro.
Le vittorie erano state tutte per un solo gol, ma bastavano a far rimanere il Deportivo Belgrano, l'eterno campione, la squadra di Padìn, di Constante Gauna e di Tata Cardiles, al secondo posto con un punto di distacco. I campi si riempivano per vedere l'Estrella Polar finalmente perdere. Erano lenti come somari e pesanti come armadi, ma marcavano a uomo e quando non ricevevano la palla gridavano come matti. Il pubblico si divertiva e noi, che giocavamo il sabato perchè eravamo più piccoli, non riuscivamo a spiegarci come potessero vincere se giocavano così male.
Davano e ricevevano colpi con tale lealtà e con tale entusiasmo che dovevano appoggiarsi gli uni agli altri per uscire dal campo mentre la gente li applaudiva per l'uno a zero e portava loro bottiglie di vino messe al fresco sotto la terra umida. La sera facevano festa nel bordello di Santa Ana e la Gorda Zulema si lamentava perchè le mangiavano le poche cose che conservava nella ghiacciaia.
Erano diventati l'attrazione del paese e a loro tutto era consentito. I vecchi li raccoglievano nei bar quando bevevano troppo e cominciavano ad attaccar briga; i commercianti li omaggiavano di qualche giocattolo e di caramelle per bambini, e al cinema le ragazze accettavano carezze al di sopra delle ginocchia. Fuori dal paese, nessuno li prendeva sul serio, neppure quando avevano vinto con l'Atletico San Martìn per due a uno. Nel pieno dell'euforia furono sconfitti come tutti quanti a Barda del Medio, e sul finire dell'andata persero il primo posto quando il Deportivo Belgrano li sistemò con sette gol. Tutti credemmo, allora, che la normalità fosse stata ristabilita. Ma la domenica dopo vinsero per uno a zero e continuarono nella loro litania di laboriose, orrende vittorie e arrivarono alla primavera con un solo punto in meno rispetto ai campioni.
continua...
giovedì 18 ottobre 2007
Si parva licet
A meno di due mesi dall'attesissima assegnazione della Coppa Intercontinentale (mi perdonerà il lettore per non essermi allineato alla più moderna nomenclatura della competizione) che verosimilmente vedrà il Milan campione d'Europa e il Boca Juniors vincitore dell'ultima Libertadores affrontarsi in finale, Futbolandia si interroga sulle peculiarità più autentiche dei due panorami calcistici.
Meglio la levatura tattica del Milan o il virtuosismo sfrontato del Boca? L'espressione tecnica della migliore squadra europea o l'inappagabile combattività degli xeneizes? Il lustro dei ciclopi imprenditori di fulmini e saette o la generosa e perseverante operosità delle api?
Si parva licet componere magnis.
Rispondete in numerosi alla disamina appena avviata e di più ampio respiro se considerata in merito alle maggiori capacità del calcio europeo e alla più espansiva fascinazione di quello sudamericano.
Futbolandia vi ringrazia per la vostra premurosa partecipazione.
Meglio la levatura tattica del Milan o il virtuosismo sfrontato del Boca? L'espressione tecnica della migliore squadra europea o l'inappagabile combattività degli xeneizes? Il lustro dei ciclopi imprenditori di fulmini e saette o la generosa e perseverante operosità delle api?
Si parva licet componere magnis.
Rispondete in numerosi alla disamina appena avviata e di più ampio respiro se considerata in merito alle maggiori capacità del calcio europeo e alla più espansiva fascinazione di quello sudamericano.
Futbolandia vi ringrazia per la vostra premurosa partecipazione.
martedì 16 ottobre 2007
Seconda stella a sinistra
di Andrea Garnero
Futbolandia, Futbolandia. Ma dov’è? Cos’è? Ci siete mai stati?
Io sì, molte volte. È nella stessa direzione dell’Isola che non c’è di Peter Pan, salvo che girare alla seconda stella a destra e poi dritto fino al mattino, all’incrocio tra Parco della Vittoria (quello del Monopoli) e Largo Subbuteo girate a sinistra.
È lì, è bellissima. Immaginate la prima nebbia autunnale, le goccioline d’umido che si poggiano al suolo. Un odore di terra umida entra piacevolmente nelle vostre narici e rinfresca il naso. I lampioni altissimi illuminano tutta Futbolandia: alberi, gente che passeggia o che corre, bambini che giocano a calcio usando come porte delle panchine. Ad un certo punto tra la nebbia si manifestano delle strane costruzioni dalle quali provengono canzoni, non cori, cantati da bambini. Man mano che ci si avvicina, queste strane costruzioni prendono sembianze di bellissimi teatri: teatri del pallone ai quali s’accede senza problemi di transenne, tornelli, code, tessere o biglietti.
A Futbolandia esistono infiniti stadi ed infinite squadre perché è giusto che ogni amante del calcio, possa vedere i suoi eroi giocare in campi sognati nella propria mente sin da piccolo.
Nella mia Futbolandia c’è uno stadio, il più bello: il Do Dragao di Palermo dove la sua squadra, il Deportivo La Spezia, esprime un gioco di alta finitura balistica. Il Deportivo La Spezia è la Squadra con la S maiuscola perché è il sentimento di calcio come lo intendo io: 11 uomini che amano vedere quella palla rotolare, saltare ed essere calciata nella rete.
È la squadra con la più brutta maglia che il dio Pallone avesse mai potuto vedere, i colori sono blu e bordot a quadrettoni tanto che i giocatori sembrano essere usciti da una contrada del Palio di Siena. La maglia presenta un colletto in cotone, nessun nome sulla schiena ed i numeri sono bianchi, cuciti a mano e quindi in rilievo. Bianchi sono anche i pantaloncini, corti corti, non come quelli che si usano al giorno d’oggi fino al ginocchio. L’icona della squadra è il simbolo delle figurine Panini. Durante gli allenamenti invernali, i giocatori del Deportivo La Spezia sono quelli che utilizzano la maglietta della salute, la maglietta di flanella, la maglia, felpa e K-way della squadra del cuore. Hanno il paraorecchi ed i guanti bucati. Inseriscono all’interno della calza di spugna bianca i pantaloni lunghi della tuta e sopra mettono ovviamente il calzettone della propria squadra del cuore. Le scarpette sono rigorosamente comperate nel primo negozio di calcio sotto casa. Per le scarpette a tredici tacchetti la marca Kronos và per la maggiore, ma è la Pantofola d’Oro a sei che tutti hanno e tutti sono orgogliosi d’indossare. I giocatori del Deportivo La Spezia s’allacciano le scarpe facendo passare le stringhe sotto al piede dopo aver tolto la molletta per tenere giù la linguetta. Non tagliano le stringhe per avere il piede più “elegante”. Lucidano le scarpe ogni giorno dopo gli allenamenti tanto che quando piove, sono talmente tante ingrassate, che l’erba non rimane neanche attaccata perché scivola via. Sono quei giocatori che quando il campo è pesante e si mettono le scarpette a sei tacchetti, si divertono a saltare negli spogliatoi per sentire il rumore del ferro sulla piastrella. Sono quei giocatori che usano il tempera matite per affilare il tacchetto non per far male all’avversario, ma per stare in piedi in campo. Sono quei giocatori che portano le loro scarpette in doccia, perché è giusto rispettarle e quindi pulirle. Sono quei giocatori che ogni volta che indossano la maglia ufficiale, la pelle d’oca comincia a manifestarsi dalla schiena fino alla testa. Sono quei giocatori che non vedono l’ora di giocare perché amano vedere la palla insaccarsi nella rete. Sono quei giocatori che per concentrarsi, prima d’entrare in campo ascoltano il brano Sing Sing Sing di Benny Goodman (rigorosamente in vinile). Sono quei giocatori per i quali i bambini allo stadio hanno gli occhi talmente grandi ed illuminati dalla felicità, che puoi capire cosa stiano pensando. Sono quei giocatori che non sputano in faccia all’avversario o si buttano a terra per una carezza. Sono quei giocatori che tassativamente a fine partita stringono la mano all’avversario e salutano tutto lo stadio con un giro d’onore come se fosse sempre festa per una vittoria di Coppa.
Il Deportivo La Spezia è la squadra del cuore. Non è il dream team perché come la pallacanestro insegna, un dream team è possibile, ma il Deportivo La Spezia esiste solo nella mia mente.
Nessun calciatore è di nazionalità italiana e tutti i giocatori hanno alzato al cielo la Coppa dei Campioni almeno una volta.
La formazione titolare prevede: legni custoditi dal rumeno Helmuth Duckadam (campione con la Steaua di Bucarest nel 1986). Linea Maginot costituita da Joao Pinto (campione con il Porto nel 1987), Franz Hasil (campione con il Feynoord nel 1970), Hans-Georg Schwarzenbeck (campione con il Bayer Munchen -Germania Ovest- nel 1975) e da Jaap Stam (campione con il Manchester United nel 1999). Fanteria rappresentata da Ronald Koeman (campione con il Barcellona nel 1992), Paulo Sousa (campione con il Borussia Dortmund nel 1997), Marcel Desailly (campione con l’Olympique de Marseille nel 1993 e con l'A.C. Milan nel 1994) e da Manuel Rui Costa (campione con l’A.C. Milan nel 2003). Diamanti del Deportivo La Spezia Marco Van Basten (campione con l’A.C. Milan nelle edizioni 1989 e '90) e Jari Litmanen (campione d’Europa con l’Ajax nel 1994). Allenatore Brian Clough (allenatore del Nottingham Forest Campione d’Europa nel 1979 e nel 1980).
Sono i giocatori più belli che uno spettatore avesse mai potuto vedere. Alcuni li ho visti solo in fotografia, altri solo in televisione, altri ancora dal vivo. Sono quei giocatori per i quali il calcio non significa denaro bensì passione. Sono quei giocatori che dopo il gol non si sono mai levati la propria maglia. Sono quei giocatori che amano giocare e darebbero la loro stessa vita per la maglia. Come per esempio il mitico portiere Duckadam che per aver parato tutti i cinque rigori nella finale del 7 Maggio 1986, giocata allo stadio Ramòn Sànchez Pizjuàn di Siviglia, subì un gravissimo torto dalla mafia rumena: gli furono rotte tutte le dita di entrambe le mani. Oppure la cucitura a bordo campo al sopracciglio del gigante di Kampen Jaap Stam, durante gli Europei del 2000. Si potrebbero elencare tanti altri esempi, questi sono i più significativi.
Il Deportivo la Spezia è fortissimo a Subbuteo, mentre delude un po’ nel calcio balilla.
È la Mia squadra e per sempre lo sarà. Tutto qui!!!
…che bella Futbolandia…
Futbolandia, Futbolandia. Ma dov’è? Cos’è? Ci siete mai stati?
Io sì, molte volte. È nella stessa direzione dell’Isola che non c’è di Peter Pan, salvo che girare alla seconda stella a destra e poi dritto fino al mattino, all’incrocio tra Parco della Vittoria (quello del Monopoli) e Largo Subbuteo girate a sinistra.
È lì, è bellissima. Immaginate la prima nebbia autunnale, le goccioline d’umido che si poggiano al suolo. Un odore di terra umida entra piacevolmente nelle vostre narici e rinfresca il naso. I lampioni altissimi illuminano tutta Futbolandia: alberi, gente che passeggia o che corre, bambini che giocano a calcio usando come porte delle panchine. Ad un certo punto tra la nebbia si manifestano delle strane costruzioni dalle quali provengono canzoni, non cori, cantati da bambini. Man mano che ci si avvicina, queste strane costruzioni prendono sembianze di bellissimi teatri: teatri del pallone ai quali s’accede senza problemi di transenne, tornelli, code, tessere o biglietti.
A Futbolandia esistono infiniti stadi ed infinite squadre perché è giusto che ogni amante del calcio, possa vedere i suoi eroi giocare in campi sognati nella propria mente sin da piccolo.
Nella mia Futbolandia c’è uno stadio, il più bello: il Do Dragao di Palermo dove la sua squadra, il Deportivo La Spezia, esprime un gioco di alta finitura balistica. Il Deportivo La Spezia è la Squadra con la S maiuscola perché è il sentimento di calcio come lo intendo io: 11 uomini che amano vedere quella palla rotolare, saltare ed essere calciata nella rete.
È la squadra con la più brutta maglia che il dio Pallone avesse mai potuto vedere, i colori sono blu e bordot a quadrettoni tanto che i giocatori sembrano essere usciti da una contrada del Palio di Siena. La maglia presenta un colletto in cotone, nessun nome sulla schiena ed i numeri sono bianchi, cuciti a mano e quindi in rilievo. Bianchi sono anche i pantaloncini, corti corti, non come quelli che si usano al giorno d’oggi fino al ginocchio. L’icona della squadra è il simbolo delle figurine Panini. Durante gli allenamenti invernali, i giocatori del Deportivo La Spezia sono quelli che utilizzano la maglietta della salute, la maglietta di flanella, la maglia, felpa e K-way della squadra del cuore. Hanno il paraorecchi ed i guanti bucati. Inseriscono all’interno della calza di spugna bianca i pantaloni lunghi della tuta e sopra mettono ovviamente il calzettone della propria squadra del cuore. Le scarpette sono rigorosamente comperate nel primo negozio di calcio sotto casa. Per le scarpette a tredici tacchetti la marca Kronos và per la maggiore, ma è la Pantofola d’Oro a sei che tutti hanno e tutti sono orgogliosi d’indossare. I giocatori del Deportivo La Spezia s’allacciano le scarpe facendo passare le stringhe sotto al piede dopo aver tolto la molletta per tenere giù la linguetta. Non tagliano le stringhe per avere il piede più “elegante”. Lucidano le scarpe ogni giorno dopo gli allenamenti tanto che quando piove, sono talmente tante ingrassate, che l’erba non rimane neanche attaccata perché scivola via. Sono quei giocatori che quando il campo è pesante e si mettono le scarpette a sei tacchetti, si divertono a saltare negli spogliatoi per sentire il rumore del ferro sulla piastrella. Sono quei giocatori che usano il tempera matite per affilare il tacchetto non per far male all’avversario, ma per stare in piedi in campo. Sono quei giocatori che portano le loro scarpette in doccia, perché è giusto rispettarle e quindi pulirle. Sono quei giocatori che ogni volta che indossano la maglia ufficiale, la pelle d’oca comincia a manifestarsi dalla schiena fino alla testa. Sono quei giocatori che non vedono l’ora di giocare perché amano vedere la palla insaccarsi nella rete. Sono quei giocatori che per concentrarsi, prima d’entrare in campo ascoltano il brano Sing Sing Sing di Benny Goodman (rigorosamente in vinile). Sono quei giocatori per i quali i bambini allo stadio hanno gli occhi talmente grandi ed illuminati dalla felicità, che puoi capire cosa stiano pensando. Sono quei giocatori che non sputano in faccia all’avversario o si buttano a terra per una carezza. Sono quei giocatori che tassativamente a fine partita stringono la mano all’avversario e salutano tutto lo stadio con un giro d’onore come se fosse sempre festa per una vittoria di Coppa.
Il Deportivo La Spezia è la squadra del cuore. Non è il dream team perché come la pallacanestro insegna, un dream team è possibile, ma il Deportivo La Spezia esiste solo nella mia mente.
Nessun calciatore è di nazionalità italiana e tutti i giocatori hanno alzato al cielo la Coppa dei Campioni almeno una volta.
La formazione titolare prevede: legni custoditi dal rumeno Helmuth Duckadam (campione con la Steaua di Bucarest nel 1986). Linea Maginot costituita da Joao Pinto (campione con il Porto nel 1987), Franz Hasil (campione con il Feynoord nel 1970), Hans-Georg Schwarzenbeck (campione con il Bayer Munchen -Germania Ovest- nel 1975) e da Jaap Stam (campione con il Manchester United nel 1999). Fanteria rappresentata da Ronald Koeman (campione con il Barcellona nel 1992), Paulo Sousa (campione con il Borussia Dortmund nel 1997), Marcel Desailly (campione con l’Olympique de Marseille nel 1993 e con l'A.C. Milan nel 1994) e da Manuel Rui Costa (campione con l’A.C. Milan nel 2003). Diamanti del Deportivo La Spezia Marco Van Basten (campione con l’A.C. Milan nelle edizioni 1989 e '90) e Jari Litmanen (campione d’Europa con l’Ajax nel 1994). Allenatore Brian Clough (allenatore del Nottingham Forest Campione d’Europa nel 1979 e nel 1980).
Sono i giocatori più belli che uno spettatore avesse mai potuto vedere. Alcuni li ho visti solo in fotografia, altri solo in televisione, altri ancora dal vivo. Sono quei giocatori per i quali il calcio non significa denaro bensì passione. Sono quei giocatori che dopo il gol non si sono mai levati la propria maglia. Sono quei giocatori che amano giocare e darebbero la loro stessa vita per la maglia. Come per esempio il mitico portiere Duckadam che per aver parato tutti i cinque rigori nella finale del 7 Maggio 1986, giocata allo stadio Ramòn Sànchez Pizjuàn di Siviglia, subì un gravissimo torto dalla mafia rumena: gli furono rotte tutte le dita di entrambe le mani. Oppure la cucitura a bordo campo al sopracciglio del gigante di Kampen Jaap Stam, durante gli Europei del 2000. Si potrebbero elencare tanti altri esempi, questi sono i più significativi.
Il Deportivo la Spezia è fortissimo a Subbuteo, mentre delude un po’ nel calcio balilla.
È la Mia squadra e per sempre lo sarà. Tutto qui!!!
…che bella Futbolandia…
lunedì 15 ottobre 2007
Il quinto Beatle
di Paolo Pegoraro
Il 15 ottobre del 1967 perde la vita in un tragico incidente Gigi Meroni, autentico fuoriclasse del Torino. Il destino beffardo volle che a investirlo fu Attilio Romero, futuro presidente del Toro. Una gestione non certa fortunata la sua, culminata con il fallimento della società nel 2005.
Luigi Meroni cresce nelle giovanili del Como, squadra con la quale approda nel calcio professionistico, nel campionato di serie B. Nel 1962 passa al Genoa e debutta nel massimo campionato; la sua consacrazione definitiva avviene due anni più tardi con il passaggio al Torino. Colleziona 103 presenze e un totale di 22 gol con la maglia granata. Con la nazionale italiana gioca in sei occasioni, segnando due gol (uno dei quali, splendido, alla nazionale Argentina in un’amichevole di preparazione ai mondiali inglesi). Partecipa alla tragi-comica spedizione inglese della nazionale ai campionati del Mondo del 1966, dai quali l’Italia fu estromessa per opera della Corea del Nord del dentista-bomber Pak Do Hik.
Giocatore estroso, elegante e agilissimo, con una grande capacità nel dribbling, un’ottima visione di gioco e un buon senso del gol. Aveva una marcia in più rispetto agli avversari che spesso, frustrati dalle sue ripetute finte e contro-finte, erano costretti ad atterrarlo in area di rigore; indubbiamente una delle ali destre più talentuose che abbiano mai calcato i campi di serie A. Un suo fantastico gol, un pallonetto di interno destro a girare finito proprio sotto l’incrocio dei pali, interruppe la serie positiva della grande Inter del mago Helenio Herrera che durava da tre anni.
Gigi era soprattutto un anticonformista, amava portare capelli lunghi e barba folta, ascoltava i Beatles e coltivava un’energica passione per la pittura e per la musica jazz. Fu un precursore in termini di look, anticipando tendenze e mode degli anni a venire; forte di una grande sensibilità artistica, si disegnava abiti e cravatte; caratteristici del suo stile erano gli inseparabili occhiali a goccia. Un atteggiamento questo, una disposizione nei confronti della vita che gli provocò le inimicizie della stampa e l’indignazione dei benpensanti, rappresentanti di un’Italia "bigotta e bacchettona", poco incline a tollerare personaggi eccentrici e comportamenti stravaganti. A completare il quadro l’immancabile femme fatal,la splendida Cristiana, ragazza italo-polacca che, per amore di Gigi, abbandonò il marito; la convivenza dei due innamorati nella mansarda in pieno centro di Gigi causò scandali e indignazioni collettive. Il sommo Gianni Brera scrisse di lui: «Fu simbolo di estri bizzarri e libertà sociali in un paese di quasi tutti conformisti».
Difficilmente accettava schemi e regole predefinite, tanto che accettò di tagliarsi i capelli solo in occasione della prima convocazione in azzurro; quando poi il commissario tecnico Fabbri gli chiese una seconda volta di sistemarsi la folta chioma lui si rifiutò, affermando di aver già dimostrato di saper giocare a pallone anche con i capelli lunghi. Forse questo contribuì alla decisione di Fabbri di impiegarlo con il contagocce durante i mondiali inglesi. La stampa fu sempre ostica con lui, per usare un eufemismo, definendolo "zingaro", "vagabondo", "squallido personaggio" e lo attaccò ingiustamente per l’eliminazione dell’Italia dai mondiali del 1966, dal momento che venne lasciato in panchina per tutta la durata dell’incontro con la Corea. I tifosi lo amavano comunque alla follia, tanto da organizzare una vera e propria sommossa popolare per impedire il trasferimento di Gigi agli acerrimi rivali cittadini, quando il passaggio alla Juventus sembrava ormai inevitabile (l’Avvocato Agnelli offrì mezzo miliardo per l’acquisto del giocatore).
Un ragazzo estroverso, che sapeva anche sdrammatizzare le grandi pressioni e le cattiverie a cui lo sottoponeva la stampa con alcune trovate geniali, come quando si fece fotografare con una gallina al guinzaglio per le strade di Como, perché la stampa potesse scrivere qualcosa su di lui, oppure quando si prese gioco del paron Nereo Rocco, suo allenatore al Toro, presentando la fidanzata Cristiana come sua sorella e introducendola così senza alcun impedimento nel ritiro della squadra. Il paron era solito chiamare Gigi «quel mona d’un Beatle»; tra gli altri soprannomi ricordiamo "Calimero", "Il quinto Beatle", "il George Best italiano" e "la farfalla granata" (titolo della biografia di Gigi Meroni scritta da Nando Dalla Chiesa).
Gigi non ha abbandonato la sua passione per il calcio, dal momento che tuttora è solito giocare interminabili partite sui campi di Futbolandia, dove fa diventare matti i difensori con le sue discese sulla fascia e i suoi dribbling funambolici.
Il 15 ottobre del 1967 perde la vita in un tragico incidente Gigi Meroni, autentico fuoriclasse del Torino. Il destino beffardo volle che a investirlo fu Attilio Romero, futuro presidente del Toro. Una gestione non certa fortunata la sua, culminata con il fallimento della società nel 2005.
Luigi Meroni cresce nelle giovanili del Como, squadra con la quale approda nel calcio professionistico, nel campionato di serie B. Nel 1962 passa al Genoa e debutta nel massimo campionato; la sua consacrazione definitiva avviene due anni più tardi con il passaggio al Torino. Colleziona 103 presenze e un totale di 22 gol con la maglia granata. Con la nazionale italiana gioca in sei occasioni, segnando due gol (uno dei quali, splendido, alla nazionale Argentina in un’amichevole di preparazione ai mondiali inglesi). Partecipa alla tragi-comica spedizione inglese della nazionale ai campionati del Mondo del 1966, dai quali l’Italia fu estromessa per opera della Corea del Nord del dentista-bomber Pak Do Hik.
Giocatore estroso, elegante e agilissimo, con una grande capacità nel dribbling, un’ottima visione di gioco e un buon senso del gol. Aveva una marcia in più rispetto agli avversari che spesso, frustrati dalle sue ripetute finte e contro-finte, erano costretti ad atterrarlo in area di rigore; indubbiamente una delle ali destre più talentuose che abbiano mai calcato i campi di serie A. Un suo fantastico gol, un pallonetto di interno destro a girare finito proprio sotto l’incrocio dei pali, interruppe la serie positiva della grande Inter del mago Helenio Herrera che durava da tre anni.
Gigi era soprattutto un anticonformista, amava portare capelli lunghi e barba folta, ascoltava i Beatles e coltivava un’energica passione per la pittura e per la musica jazz. Fu un precursore in termini di look, anticipando tendenze e mode degli anni a venire; forte di una grande sensibilità artistica, si disegnava abiti e cravatte; caratteristici del suo stile erano gli inseparabili occhiali a goccia. Un atteggiamento questo, una disposizione nei confronti della vita che gli provocò le inimicizie della stampa e l’indignazione dei benpensanti, rappresentanti di un’Italia "bigotta e bacchettona", poco incline a tollerare personaggi eccentrici e comportamenti stravaganti. A completare il quadro l’immancabile femme fatal,la splendida Cristiana, ragazza italo-polacca che, per amore di Gigi, abbandonò il marito; la convivenza dei due innamorati nella mansarda in pieno centro di Gigi causò scandali e indignazioni collettive. Il sommo Gianni Brera scrisse di lui: «Fu simbolo di estri bizzarri e libertà sociali in un paese di quasi tutti conformisti».
Difficilmente accettava schemi e regole predefinite, tanto che accettò di tagliarsi i capelli solo in occasione della prima convocazione in azzurro; quando poi il commissario tecnico Fabbri gli chiese una seconda volta di sistemarsi la folta chioma lui si rifiutò, affermando di aver già dimostrato di saper giocare a pallone anche con i capelli lunghi. Forse questo contribuì alla decisione di Fabbri di impiegarlo con il contagocce durante i mondiali inglesi. La stampa fu sempre ostica con lui, per usare un eufemismo, definendolo "zingaro", "vagabondo", "squallido personaggio" e lo attaccò ingiustamente per l’eliminazione dell’Italia dai mondiali del 1966, dal momento che venne lasciato in panchina per tutta la durata dell’incontro con la Corea. I tifosi lo amavano comunque alla follia, tanto da organizzare una vera e propria sommossa popolare per impedire il trasferimento di Gigi agli acerrimi rivali cittadini, quando il passaggio alla Juventus sembrava ormai inevitabile (l’Avvocato Agnelli offrì mezzo miliardo per l’acquisto del giocatore).
Un ragazzo estroverso, che sapeva anche sdrammatizzare le grandi pressioni e le cattiverie a cui lo sottoponeva la stampa con alcune trovate geniali, come quando si fece fotografare con una gallina al guinzaglio per le strade di Como, perché la stampa potesse scrivere qualcosa su di lui, oppure quando si prese gioco del paron Nereo Rocco, suo allenatore al Toro, presentando la fidanzata Cristiana come sua sorella e introducendola così senza alcun impedimento nel ritiro della squadra. Il paron era solito chiamare Gigi «quel mona d’un Beatle»; tra gli altri soprannomi ricordiamo "Calimero", "Il quinto Beatle", "il George Best italiano" e "la farfalla granata" (titolo della biografia di Gigi Meroni scritta da Nando Dalla Chiesa).
Gigi non ha abbandonato la sua passione per il calcio, dal momento che tuttora è solito giocare interminabili partite sui campi di Futbolandia, dove fa diventare matti i difensori con le sue discese sulla fascia e i suoi dribbling funambolici.
domenica 14 ottobre 2007
Ordem e Progresso
Non biasimo chi in questi giorni ha paventato che a Futbolandia si fossero imperdonabilmente dimenticati degli sfarzi calcistici brasiliani.
Il Brasile ha scritto splendide e indelebili pagine di storia sportiva, con i suoi cinque successi mondiali, le otto Coppe America, gli antichi fasti del Santos di Pelè (nella sua storia i peixe hanno vinto due campionati brasiliani, diciassette paulisti, due Libertadores e due Intercontinentali), del Flamengo (con la Lubrax -marchio del cartello petrolifero Petrobas- come sponsorizzazione più duratura della storia del calcio, dal 1984 sulla maglia dei carioca) e i più giovani successi del Corinthians, vincitore nel 2000 del primo mondiale per club, del Palmeiras (negli anni '90 due campionati brasiliani, tre paulisti e una Libertadores) del San Paolo (vincitore dell'ultimo campionato nazionale) e dell'Internacional de Puerto Alegre (squadra detentrice del mondiale per club). Di sensibile suggestione la formula dei tre campionati "regionali" (da accostarsi a quello nazionale), ovvero il campionato carioca, disputato dalle squadre dello stato di Rio de Janeiro (le più competitive sono il Flamengo, il Vasco da Gama, il Fluminense e il Botafogo), quello paulista (con Corinthians, Palmeiras, Santos e San Paolo) e quello baiano dello stato di Bahia (ultimo vincitore il Vitoria de Salvador).
Attualmente 493 calciatori brasiliani militano nei 27 campionati di prima divisione dei paesi membri dell'Unione Europea: 133 in Portogallo, 38 in Italia, 33 in Francia, 30 in Germania, 27 in Spagna. Kakà e Ronaldinho Gaucho sono considerati all'unanimità tra i più forti giocatori al mondo. Molti a Futbolandia hanno poi imparato ad amare Falcao e Zico tramite gli emozionati panegirici dei genitori o dei cugini più grandi, nonostante Milano parlasse esclusivamente fiammingo e tedesco in concomitanza con la nascita calcistica di molti di noi. Futbolandia ha magnificato Ronaldo come mai le era accaduto di fare con altri, malgrado la maglia di gusto opinabile da lui indossata durante la sua prima esperienza "italiana", prova oggi sviscerata ammirazione per Juninho Pernambucano (che nome incantevole, e che piede educato!), per Diego da Cunha, rinfrancato dagli antalgici venti del Mare del Nord (strana la vita) e incarna la sempre più sentita curiosità popolare per Alexandre Pato.
Nonostante tutto nemmeno a Futbolandia, per antonomasia patria senza bandiere, è consentito farsi unitamente argentini e brasiliani. Eccezionalmente per questo presupposto e per nessun altro conio di immotivata antipatia, a Futbolandia c'è chi guarderà sempre al calcio biancoceleste (più genericamente ispanoamericano) con affettivo riguardo, delegando la prestigiosa trattazione delle grandezze verdeoro a chi ne sente maggior necessità.
Il Brasile ha scritto splendide e indelebili pagine di storia sportiva, con i suoi cinque successi mondiali, le otto Coppe America, gli antichi fasti del Santos di Pelè (nella sua storia i peixe hanno vinto due campionati brasiliani, diciassette paulisti, due Libertadores e due Intercontinentali), del Flamengo (con la Lubrax -marchio del cartello petrolifero Petrobas- come sponsorizzazione più duratura della storia del calcio, dal 1984 sulla maglia dei carioca) e i più giovani successi del Corinthians, vincitore nel 2000 del primo mondiale per club, del Palmeiras (negli anni '90 due campionati brasiliani, tre paulisti e una Libertadores) del San Paolo (vincitore dell'ultimo campionato nazionale) e dell'Internacional de Puerto Alegre (squadra detentrice del mondiale per club). Di sensibile suggestione la formula dei tre campionati "regionali" (da accostarsi a quello nazionale), ovvero il campionato carioca, disputato dalle squadre dello stato di Rio de Janeiro (le più competitive sono il Flamengo, il Vasco da Gama, il Fluminense e il Botafogo), quello paulista (con Corinthians, Palmeiras, Santos e San Paolo) e quello baiano dello stato di Bahia (ultimo vincitore il Vitoria de Salvador).
Attualmente 493 calciatori brasiliani militano nei 27 campionati di prima divisione dei paesi membri dell'Unione Europea: 133 in Portogallo, 38 in Italia, 33 in Francia, 30 in Germania, 27 in Spagna. Kakà e Ronaldinho Gaucho sono considerati all'unanimità tra i più forti giocatori al mondo. Molti a Futbolandia hanno poi imparato ad amare Falcao e Zico tramite gli emozionati panegirici dei genitori o dei cugini più grandi, nonostante Milano parlasse esclusivamente fiammingo e tedesco in concomitanza con la nascita calcistica di molti di noi. Futbolandia ha magnificato Ronaldo come mai le era accaduto di fare con altri, malgrado la maglia di gusto opinabile da lui indossata durante la sua prima esperienza "italiana", prova oggi sviscerata ammirazione per Juninho Pernambucano (che nome incantevole, e che piede educato!), per Diego da Cunha, rinfrancato dagli antalgici venti del Mare del Nord (strana la vita) e incarna la sempre più sentita curiosità popolare per Alexandre Pato.
Nonostante tutto nemmeno a Futbolandia, per antonomasia patria senza bandiere, è consentito farsi unitamente argentini e brasiliani. Eccezionalmente per questo presupposto e per nessun altro conio di immotivata antipatia, a Futbolandia c'è chi guarderà sempre al calcio biancoceleste (più genericamente ispanoamericano) con affettivo riguardo, delegando la prestigiosa trattazione delle grandezze verdeoro a chi ne sente maggior necessità.
sabato 13 ottobre 2007
Maravilla Roja
Tra oggi e domani si disputeranno i primi incontri validi per le qualificazioni delle squadre sudamericane al mondiale di calcio del 2010 secondo la consueta modalità del girone unico a dieci squadre. Argentina-Cile apre il programma e il Monumental si veste a festa per l'investitura di Lionel Messi, alla prima da titolare a Baires.
Per Marcelo Bielsa, da pochi mesi selezionatore della Roja, subito il confronto con la sua Argentina che, con Bielsa commissario tecnico, ha vinto il suo ultimo titolo alle Olimpiadi di Atene nel 2004. Marcelo è il demiurgo del 3-3-1-3, modulo di peculiarità prettamente offensiva e scenografica. Scrive Paolo Condò: «Bielsa è un tipo molto particolare: stimatissimo per il suo calcio ultraoffensivo e per un'onestà intellettuale di fronte alla quale tutti gli argentini si tolgono il cappello, non ha mai concesso un'intervista esclusiva perchè - parole sue - "le piccole gazzette patagoniche hanno gli stessi diritti dei grandi giornali di Buenos Aires". Malato di calcio come pochi, si racconta che nella sua casa di campagna abbia un campo con misure regolamentari, e che spesso obblighi chi vive con lui - la moglie, i figli, ma anche la cuoca e il giardiniere - a disporsi sul terreno di gioco per verificare una nuova idea tattica: non lo chiamano El Loco per niente».
Il Cile di Bielsa è una squadra suggestiva e di curiose aspettative grazie agli innesti dei protagonisti del terzo posto della Rojita ai recenti mondiali canadesi under20. Spiccano tra questi il calcio granitico di Arturo Vidal, la preziosa poliedricità di Mauricio Isla e il sottile virtuosismo di Alexis Sanchez, el nino maravilla (gli ultimi due già acquistati dall'Udinese). In difesa, insieme a Vidal, Ismael Fuentes e Waldo Ponce, in mediana Manuel Iturra, Marco Estrada e Hugo Droguett (stella dei Tecos, allenati dal flaco Cesar Luis Menotti). Trequartista Mati Fernandez (ottimo inizio di stagione nel Villareal), punta centrale Humberto Suazo, con Eduardo Rubio e Carlos Villanueva nei ruoli di wines (terminologia bielsana per indicare gli esterni d’attacco che devono “aprire” il campo tergiversando tra le linee e propiziando promiscue soluzioni sulle fasce, a discapito del modulo utilizzato, autentiche arterie propulsive del calcio bielsista), ma non sono da escludere gli impieghi di Alexis Sanchez, del mago Luis Jimenez (al rientro nonostante le antipatiche vicissitudini "europee") e del matador Marcelo Salas, centravanti di indimenticabile splendore e smisurata grazia calcistica, attualmente all'Universidad de Chile per il canto del cigno.
Buena suerte joven Roja.
Per Marcelo Bielsa, da pochi mesi selezionatore della Roja, subito il confronto con la sua Argentina che, con Bielsa commissario tecnico, ha vinto il suo ultimo titolo alle Olimpiadi di Atene nel 2004. Marcelo è il demiurgo del 3-3-1-3, modulo di peculiarità prettamente offensiva e scenografica. Scrive Paolo Condò: «Bielsa è un tipo molto particolare: stimatissimo per il suo calcio ultraoffensivo e per un'onestà intellettuale di fronte alla quale tutti gli argentini si tolgono il cappello, non ha mai concesso un'intervista esclusiva perchè - parole sue - "le piccole gazzette patagoniche hanno gli stessi diritti dei grandi giornali di Buenos Aires". Malato di calcio come pochi, si racconta che nella sua casa di campagna abbia un campo con misure regolamentari, e che spesso obblighi chi vive con lui - la moglie, i figli, ma anche la cuoca e il giardiniere - a disporsi sul terreno di gioco per verificare una nuova idea tattica: non lo chiamano El Loco per niente».
Il Cile di Bielsa è una squadra suggestiva e di curiose aspettative grazie agli innesti dei protagonisti del terzo posto della Rojita ai recenti mondiali canadesi under20. Spiccano tra questi il calcio granitico di Arturo Vidal, la preziosa poliedricità di Mauricio Isla e il sottile virtuosismo di Alexis Sanchez, el nino maravilla (gli ultimi due già acquistati dall'Udinese). In difesa, insieme a Vidal, Ismael Fuentes e Waldo Ponce, in mediana Manuel Iturra, Marco Estrada e Hugo Droguett (stella dei Tecos, allenati dal flaco Cesar Luis Menotti). Trequartista Mati Fernandez (ottimo inizio di stagione nel Villareal), punta centrale Humberto Suazo, con Eduardo Rubio e Carlos Villanueva nei ruoli di wines (terminologia bielsana per indicare gli esterni d’attacco che devono “aprire” il campo tergiversando tra le linee e propiziando promiscue soluzioni sulle fasce, a discapito del modulo utilizzato, autentiche arterie propulsive del calcio bielsista), ma non sono da escludere gli impieghi di Alexis Sanchez, del mago Luis Jimenez (al rientro nonostante le antipatiche vicissitudini "europee") e del matador Marcelo Salas, centravanti di indimenticabile splendore e smisurata grazia calcistica, attualmente all'Universidad de Chile per il canto del cigno.
Buena suerte joven Roja.
mercoledì 10 ottobre 2007
Sipario e Buonanotte
A Futbolandia tutti amano il superclasico, l'incontro che vede affrontarsi le due squadre più blasonate del calcio argentino, il Boca Juniors (22 titoli nazionali, 6 coppe Libertadores) e il River Plate (32/2). La scorsa domenica il River si è imposto al Monumental per due reti a zero (reti di Radamel Falcao Garcia e del burrito Ariel Arnaldo Ortega). Diego Buonanotte è l'hombre del partido, immarcabile e seducente incantatore del tempio che fu dei matadores Kempes e Salas, di Francescoli e di Gabriel Omar Batistuta, quest'ultimo poi al Boca (proprio in occasione del superclasico di apertura 1990, el bati si arrampicò sopra una rete dopo una splendida segnatura, costringendo pochi istanti dopo il personale medico boquense a celeri e approssimative medicazioni). Buonanotte, trequartista classe 1988, è il nuovo craque del calcio argentino dopo il battesimo in banda rossa contro il Rosario Central (con rete strepitosa) e l'esordio da titolare nel superclasico di domenica scorsa, saltando i bastioni xeneizes con smaliziata leggerezza. El enano si chiama Diego, mancino di basso baricentro e irrisoria statura; se resisterà alle incombenti smodate lusinghe del caleidoscopio calcistico sarà presto un grande di Futbolandia. Non inganni il fisico così minuto: il ragazzo si farà, anche se ha le spalle strette...
domenica 7 ottobre 2007
Accadde oggi
di Andrea Garnero
Il 7 ottobre 1991 inizia la più lunga striscia di permanenza al vertice del campionato di serie A. Il Milan di Fabio Capello batte a Bergamo l'Atalanta di Bruno Giorgi per 2 a 0 e agguanta in cima alla classifica il Napoli di Claudio Ranieri. Il Milan rimane al comando per 72 giornate consecutive, 29 nel campionato 1991-92, 34 nel campionato 1992-93 e 9 nel campionato 1993-94, fino a quando il 31 ottobre 1993, perdendo a Marassi per 3 a 2 con il famoso gol dell'ex Gullit, i rossoneri vengono superati dalla Sampdoria e dalla Juventus. Il Milan però tornò in vetta già dalla domenica successiva (in condominio con il Parma) e senza mai più cedere lo scettro conquistò il 17 aprile il suo terzo scudetto consecutivo pareggiando 2 a 2 a San Siro contro l'Udinese.
Il 7 ottobre 1991 inizia la più lunga striscia di permanenza al vertice del campionato di serie A. Il Milan di Fabio Capello batte a Bergamo l'Atalanta di Bruno Giorgi per 2 a 0 e agguanta in cima alla classifica il Napoli di Claudio Ranieri. Il Milan rimane al comando per 72 giornate consecutive, 29 nel campionato 1991-92, 34 nel campionato 1992-93 e 9 nel campionato 1993-94, fino a quando il 31 ottobre 1993, perdendo a Marassi per 3 a 2 con il famoso gol dell'ex Gullit, i rossoneri vengono superati dalla Sampdoria e dalla Juventus. Il Milan però tornò in vetta già dalla domenica successiva (in condominio con il Parma) e senza mai più cedere lo scettro conquistò il 17 aprile il suo terzo scudetto consecutivo pareggiando 2 a 2 a San Siro contro l'Udinese.
venerdì 5 ottobre 2007
Gatti sui tetti che scottano
A Futbolandia tutti ricordano di Hugo Orlando Gatti, nato a Buenos Aires il 19 agosto 1944.
Il piccolo Hugo individua sin da bambino una percorribile carriera tra i legni di una porta come occupazione fissa e garanzia remunerativa, non senza esitazioni o ambiziosi propositi da tuttocampista.
Nel 1962 Hugo esordisce in primera nel Club Atletico Atlanta di Buenos Aires: l'estadio Don Leon Kolbovsky de Villa Crespo ha una porta da assegnare in custodia. Per Hugo 38 presenze, esuberanti parate e "qualche" infelice esplorazione fuori area (del resto si sa, i giovani sono così curiosi del mondo).
Nel '64 il River Plate lo acquista e Hugo fa l'eccentrico: si lega alla testa una vistosa bandana e la crescita esponenziale dei suoi capelli gli suggerirà di non privarsene più; i calzettoni li tiene alle caviglie perchè i parastinchi gli sono indigesti; testa di persona le incommensurabili soluzioni della scala cromatica indossando coloratissime uniformi. Ma il portiere titolare del River si chiama Amadeo Carrizo ed è una leggenda del club perchè con i millonarios ha giocato più di cinquecento partite. Per Hugo 77 presenze e un derby contro il Boca da hombre del partido: tra gli xeneizes alle sue spalle vola in campo una scopa, Hugo la raccoglie e ramazza l'aria di rigore con scrupolosa affezione (gli argentini, per antonomasia gente prodiga e dimessa, sono soliti organizzare negli stadi - in occasione delle partite - imponenti raccolte per il riciclaggio della carta, igienica compresa), "tanto i bosteros oggi non si reggono in piedi". Vince il Boca per tre reti a zero.
Tra il '69 e il '74 Hugo si trasferisce a La Plata nel Gymnasia y Esgrima, 223 presenze, poi un anno all'Uniòn di Santa Fè: el loco gioca benissimo nonostante l'immedicabile insofferenza per la linea di porta. 45 gettoni prima del trasferimento al Boca Juniors nel '76 e un tesoretto di 372 presenze in maglia gialloblu. I boquenses lo accolgono con affetto e Hugo ricambia la loro generosità: di notte si intrattiene con i tangueros, i mimi, gli istrioni, i malviventi, i sudacas, gli immigrati e le generose passeggiatrici del Barrio de la Boca e di Porto Madero (Hugo è un irresistibile seduttore e anche a milonguear non se la cava per niente male); di giorno para l'imparabile senza badare alle più comode e poco stimolanti respinte.
Il 29 settembre 1977, l'Independiente de Avellaneda non tira mai in porta. Hugo sbadiglia, non è più un ragazzino e i piedi gli dolgono (galeotto fu quel tango con Donna Isadora de Orellana...). El loco si mette a sedere sopra la traversa, nell'incredulità generale della Bombonera persino gli xeneizes più giovani lo stramaledicono per aver inferto loro l'inesorabile condanna a una prematura caducità. E ancora oggi i cardiologi di Buenos Aires ringraziano.
Il 9 agosto 1980 Boca e Argentinos Juniors si affrontano in una partita valida per il Campionato Metropolitano: nei semilleros gioca un pingue ragazzino di centosessantasei centimetri con una buffa testa crespa. In primera ha già segnato 79 volte ed è considerato l'astro nascente del calcio argentino. Hugo, per natura avvenente, alto e prestante (la bandana farà il resto), non si capacita di come quel ventre possa prestarsi così proficuamente a un campo di gioco. Lo chiama gordito, lo invita a defilarsi perchè nemmeno per intercessione divina sarebbe riuscito a segnargli. Il ragazzo si chiama Diego, el Diez, e quel giorno segnò il suo ottantesimo gol da professionista su rigore, l'ottantunesimo e l'ottantaduesimo su punizione, l'ottantatreesimo su azione di contropiede chiamando el loco fuori dai pali e infilandolo al suo primo passo avanti («el loco me dijo gordito una vez y le contestè con cuatro goles»). Il vecchio Hugo avrà modo di conoscere meglio quell'irrispettoso gordito, perchè l'anno successivo Diego si trasferirà in prestito al Boca e con l'immutata sfacciataggine di quel giorno lo farà stendere invano in allenamento per alcuni altri mesi, segnando con ogni possibile e pensabile soluzione anche se mai con il piede destro. El Diez avrà modo di far parlare di sè anche per qualche altro sporadico episodio.
Gatti ha difeso anche la porta dell'albiceleste per numerosi anni. Il 24 marzo 1976 Hugo partecipa con la nazionale argentina a una prestigiosa amichevole contro l'U.R.S.S a Mosca. Frattanto, Jorge Videla con il golpe de estado si insedia alla Casa Rosada. Una volta rientrato dagli impegni nazionali, Hugo avrà modo di rilasciare qualche "pacata" dichiarazione: trattasi nient'altro che di composte osservazioni sul codice deontologico adottato da Videla, al fine di livellare le sensibili divergenze d'opinione. Le detonazioni verbali di Hugo mal si addicono alla politica militare di Videla. I proseliti e faziosi giornalisti fanno di Hugo il loro migliore bersaglio, dal suo canto el loco rinuncia alla convocazione della nazionale per i campionati mondiali del '78. Ubaldo Matildo Fillol, in forza al River, lo sostituisce tra i pali. L'Argentina vince la sua prima coppa del mondo.
Hugo gioca fino al 1989 ma già da diversi anni ha perso la titolarità della porta del Boca a favore della pantera Carlos Rodriguez. El loco chiude la carriera in polemica con i sostenitori del Boca, tradizionalmente di vocazione peronista e poco propensi al favore politico nei confronti di Raùl Alfonsìn, di cui Hugo si dimostrò deciso sostenitore. Ma i boquenses lo ameranno per sempre, ne siamo fermamente convinti, così come tutti gli ammiratori di Futbolandia, nonostante alcune recenti fumose dichiarazioni riguardanti la nutrita presenza di «jugadores negros en la seleccìon ecuadorena».
Professione portiere, acrobata per diletto...e castigo. Molti credono che el loco fosse nei guanti di Ramon Quiroga (portiere argentino concesso "in comodato d'uso" alla nazionale peruviana) quando ai mondiali '78 Rensenbrink e Neeskens compresero presto che non sarebbe stata giornata e l'arancia meccanica impattò in un inverosimile pareggio senza reti nonostante le 26 conclusioni in porta. Soltanto alcuni giorni dopo l'Argentina battè il Perù per sei reti a zero (ne sarebbero bastate quattro senza subirne per passare il turno a scapito del Brasile) con Quiroga spettatore non pagante e con una divisa da gioco illibata e pronta per un immediato riutilizzo; marmelada peruana e seleçao eliminata.
Altri pensano che Hugo, ritiratosi, fosse solito sedersi sopra la traversa delle porte difese dal colombiano Renè Higuita per indicargli la corretta tempistica delle uscite e dei lesivi dribbling fuori area (Italia '90: il Camerun - pago del pareggio contro un'ottima Colombia - non pressa più, Higuita esce dall'area palla al piede, cerca il dribbling da boato sull'esausto Milla, "qualcosa non ha funzionato", deve aver pensato il buon Renè voltandosi e osservando il venerando Roger poggiare comodamente la palla in rete. 2-1, leoni agli ottavi di finale e Colombia a casa). Dicono anche che oggi tra Hugo e Renè non corra buon sangue, causa un contenzioso pertinente quella parata nel '95 a Wembley: Jamie Redknapp calcia in porta con violenza, il portiere si tuffa in avanti respingendo il pallone con i talloni uniti dopo esserselo lasciato scorrere alle spalle. Entrambi rivendicano la paternità di quell'incomprensibile parata, Renè racconta, ogni volta lo richiedano le circostanze, che Hugo in Bretagna non si è mai recato ma nessuno gli crede, nonostante la ragione sia consuetudine darla ai matti.
Il messicano Jorge Campos Navarrete in porta si sistemava con il numero 9 sulle spalle per ricordarsi dei suoi trascorsi da centravanti (35 reti nel Cruz Azul) e disegnava con l'efficace contributo del loco (più voci confermano di questa cooperazione) tutte le sue policrome e cangianti uniformi.
Forse tutti questi rumori di fondo sono veri, o forse sono le solite illusorie e vane suggestioni di qualche incauto visionario di Futbolandia.
Il piccolo Hugo individua sin da bambino una percorribile carriera tra i legni di una porta come occupazione fissa e garanzia remunerativa, non senza esitazioni o ambiziosi propositi da tuttocampista.
Nel 1962 Hugo esordisce in primera nel Club Atletico Atlanta di Buenos Aires: l'estadio Don Leon Kolbovsky de Villa Crespo ha una porta da assegnare in custodia. Per Hugo 38 presenze, esuberanti parate e "qualche" infelice esplorazione fuori area (del resto si sa, i giovani sono così curiosi del mondo).
Nel '64 il River Plate lo acquista e Hugo fa l'eccentrico: si lega alla testa una vistosa bandana e la crescita esponenziale dei suoi capelli gli suggerirà di non privarsene più; i calzettoni li tiene alle caviglie perchè i parastinchi gli sono indigesti; testa di persona le incommensurabili soluzioni della scala cromatica indossando coloratissime uniformi. Ma il portiere titolare del River si chiama Amadeo Carrizo ed è una leggenda del club perchè con i millonarios ha giocato più di cinquecento partite. Per Hugo 77 presenze e un derby contro il Boca da hombre del partido: tra gli xeneizes alle sue spalle vola in campo una scopa, Hugo la raccoglie e ramazza l'aria di rigore con scrupolosa affezione (gli argentini, per antonomasia gente prodiga e dimessa, sono soliti organizzare negli stadi - in occasione delle partite - imponenti raccolte per il riciclaggio della carta, igienica compresa), "tanto i bosteros oggi non si reggono in piedi". Vince il Boca per tre reti a zero.
Tra il '69 e il '74 Hugo si trasferisce a La Plata nel Gymnasia y Esgrima, 223 presenze, poi un anno all'Uniòn di Santa Fè: el loco gioca benissimo nonostante l'immedicabile insofferenza per la linea di porta. 45 gettoni prima del trasferimento al Boca Juniors nel '76 e un tesoretto di 372 presenze in maglia gialloblu. I boquenses lo accolgono con affetto e Hugo ricambia la loro generosità: di notte si intrattiene con i tangueros, i mimi, gli istrioni, i malviventi, i sudacas, gli immigrati e le generose passeggiatrici del Barrio de la Boca e di Porto Madero (Hugo è un irresistibile seduttore e anche a milonguear non se la cava per niente male); di giorno para l'imparabile senza badare alle più comode e poco stimolanti respinte.
Il 29 settembre 1977, l'Independiente de Avellaneda non tira mai in porta. Hugo sbadiglia, non è più un ragazzino e i piedi gli dolgono (galeotto fu quel tango con Donna Isadora de Orellana...). El loco si mette a sedere sopra la traversa, nell'incredulità generale della Bombonera persino gli xeneizes più giovani lo stramaledicono per aver inferto loro l'inesorabile condanna a una prematura caducità. E ancora oggi i cardiologi di Buenos Aires ringraziano.
Il 9 agosto 1980 Boca e Argentinos Juniors si affrontano in una partita valida per il Campionato Metropolitano: nei semilleros gioca un pingue ragazzino di centosessantasei centimetri con una buffa testa crespa. In primera ha già segnato 79 volte ed è considerato l'astro nascente del calcio argentino. Hugo, per natura avvenente, alto e prestante (la bandana farà il resto), non si capacita di come quel ventre possa prestarsi così proficuamente a un campo di gioco. Lo chiama gordito, lo invita a defilarsi perchè nemmeno per intercessione divina sarebbe riuscito a segnargli. Il ragazzo si chiama Diego, el Diez, e quel giorno segnò il suo ottantesimo gol da professionista su rigore, l'ottantunesimo e l'ottantaduesimo su punizione, l'ottantatreesimo su azione di contropiede chiamando el loco fuori dai pali e infilandolo al suo primo passo avanti («el loco me dijo gordito una vez y le contestè con cuatro goles»). Il vecchio Hugo avrà modo di conoscere meglio quell'irrispettoso gordito, perchè l'anno successivo Diego si trasferirà in prestito al Boca e con l'immutata sfacciataggine di quel giorno lo farà stendere invano in allenamento per alcuni altri mesi, segnando con ogni possibile e pensabile soluzione anche se mai con il piede destro. El Diez avrà modo di far parlare di sè anche per qualche altro sporadico episodio.
Gatti ha difeso anche la porta dell'albiceleste per numerosi anni. Il 24 marzo 1976 Hugo partecipa con la nazionale argentina a una prestigiosa amichevole contro l'U.R.S.S a Mosca. Frattanto, Jorge Videla con il golpe de estado si insedia alla Casa Rosada. Una volta rientrato dagli impegni nazionali, Hugo avrà modo di rilasciare qualche "pacata" dichiarazione: trattasi nient'altro che di composte osservazioni sul codice deontologico adottato da Videla, al fine di livellare le sensibili divergenze d'opinione. Le detonazioni verbali di Hugo mal si addicono alla politica militare di Videla. I proseliti e faziosi giornalisti fanno di Hugo il loro migliore bersaglio, dal suo canto el loco rinuncia alla convocazione della nazionale per i campionati mondiali del '78. Ubaldo Matildo Fillol, in forza al River, lo sostituisce tra i pali. L'Argentina vince la sua prima coppa del mondo.
Hugo gioca fino al 1989 ma già da diversi anni ha perso la titolarità della porta del Boca a favore della pantera Carlos Rodriguez. El loco chiude la carriera in polemica con i sostenitori del Boca, tradizionalmente di vocazione peronista e poco propensi al favore politico nei confronti di Raùl Alfonsìn, di cui Hugo si dimostrò deciso sostenitore. Ma i boquenses lo ameranno per sempre, ne siamo fermamente convinti, così come tutti gli ammiratori di Futbolandia, nonostante alcune recenti fumose dichiarazioni riguardanti la nutrita presenza di «jugadores negros en la seleccìon ecuadorena».
Professione portiere, acrobata per diletto...e castigo. Molti credono che el loco fosse nei guanti di Ramon Quiroga (portiere argentino concesso "in comodato d'uso" alla nazionale peruviana) quando ai mondiali '78 Rensenbrink e Neeskens compresero presto che non sarebbe stata giornata e l'arancia meccanica impattò in un inverosimile pareggio senza reti nonostante le 26 conclusioni in porta. Soltanto alcuni giorni dopo l'Argentina battè il Perù per sei reti a zero (ne sarebbero bastate quattro senza subirne per passare il turno a scapito del Brasile) con Quiroga spettatore non pagante e con una divisa da gioco illibata e pronta per un immediato riutilizzo; marmelada peruana e seleçao eliminata.
Altri pensano che Hugo, ritiratosi, fosse solito sedersi sopra la traversa delle porte difese dal colombiano Renè Higuita per indicargli la corretta tempistica delle uscite e dei lesivi dribbling fuori area (Italia '90: il Camerun - pago del pareggio contro un'ottima Colombia - non pressa più, Higuita esce dall'area palla al piede, cerca il dribbling da boato sull'esausto Milla, "qualcosa non ha funzionato", deve aver pensato il buon Renè voltandosi e osservando il venerando Roger poggiare comodamente la palla in rete. 2-1, leoni agli ottavi di finale e Colombia a casa). Dicono anche che oggi tra Hugo e Renè non corra buon sangue, causa un contenzioso pertinente quella parata nel '95 a Wembley: Jamie Redknapp calcia in porta con violenza, il portiere si tuffa in avanti respingendo il pallone con i talloni uniti dopo esserselo lasciato scorrere alle spalle. Entrambi rivendicano la paternità di quell'incomprensibile parata, Renè racconta, ogni volta lo richiedano le circostanze, che Hugo in Bretagna non si è mai recato ma nessuno gli crede, nonostante la ragione sia consuetudine darla ai matti.
Il messicano Jorge Campos Navarrete in porta si sistemava con il numero 9 sulle spalle per ricordarsi dei suoi trascorsi da centravanti (35 reti nel Cruz Azul) e disegnava con l'efficace contributo del loco (più voci confermano di questa cooperazione) tutte le sue policrome e cangianti uniformi.
Forse tutti questi rumori di fondo sono veri, o forse sono le solite illusorie e vane suggestioni di qualche incauto visionario di Futbolandia.
martedì 2 ottobre 2007
Benvenuti a Futbolandia
Benvenuti a Futbolandia, dove il gioco del calcio è un'istituzione proprio come per tutti voi ma con un'unica sostanziale dissomiglianza: a Futbolandia tutti sanno che la vittoria non è l'unica esacerbata e indispensabile prerogativa, non è l'unico consentito, approvabile e necessario conseguimento di gravosi e deprecabili espedienti. A Futbolandia la vittoria è come il piacere inverosimile di osservare il corpo di una donna senza le urgenze del desiderio o gli intralci del pudore. A Futbolandia vincere è giocare bene, quand'anche giocare bene possa farsi del tutto controproducente.
A Futbolandia i calciatori più forti portano capelli lunghi e scarmigliati, basette incolte, indossano la maglia stretta e gli scarpini tutti neri. Nella loro prosaica bellezza sembrano tutti somigliare a Neeskens, a Falcao, a Kempes, a Boninsegna. A Futbolandia nessuno si sfila la maglietta dopo una rete segnata, non per timore di venire ammoniti (nel regolamento di Futbolandia non c'è traccia di simili faceti accorgimenti), ma perchè quella maglia figura l'incondizionata appartenenza alla propria squadra e la stima per l'avversario. A Futbolandia i portieri più acrobatici indossano la maglia nera, i più efficaci ce l'hanno grigia. A Futbolandia i numeri delle maglie dei calciatori titolari vanno dall'1 all'11, con l'eccezione di un irriverente ragazzino olandese cui è stato concesso il 14 e in panchina non lo si può proprio confinare. Il 10 spetta al calciatore con maggior estro e talento, se non corre ci sarà sempre qualche Benetti a fare legna anche per lui. A Futbolandia non occorrono i nomi sulle maglie perchè tutti conoscono tutti i calciatori, e tutti li magnificano senza alcuna riserva. A Futbolandia nessun calciatore simula, nessuno spreca tempo di gioco ma soprattutto nessuno chiede che l'avversario venga espulso. Negli spogliatoi di Futbolandia si beve soltanto acqua quando fa caldo e tè in inverno (senza dimenticare il Fernet prima dell'allenamento per favorire una corretta digestione - ben inteso - e spesso anche la sera precedente la partita, quando a notte inoltrata capita che qualcuno a carte vinca soltanto grazie a una dibattuta primiera). Poi qualcuno si nasconde in un angolo per accendere una furtiva e svelta sigaretta; l'allenatore finge di non badarsene, che in fondo sono ragazzi (a Futbolandia il che polivalente non lo cerchiano con la matita rossa!) e la delicatezza dei loro pensieri gli ricorda quando era giovane e dai ritiri anche allora si scappava e i cuori si aprivano e i vini scorrevano. Non resta che qualche svogliata carezza e un pò di tenerezza...A Futbolandia capita che il Foggia allenato da un taciturno boemo vinca uno scudetto, e che poi il taciturno boemo lo scudetto lo vinca anche con il Lecce. A Futbolandia anche il Parma ha vinto uno scudetto e gli eroi di quello scudetto si chiamano Taffarel, Minotti, Grun, Apolloni, Di Chiara, Benarrivo, Bia, Brolin, Zoratto, Osio, Melli e Scala (ma sono eroi anche quelli che lo scudetto non lo portano cucito sul petto, del resto alle Termopili mica hanno vinto i trecento spartani no?). A Futbolandia il Verona non ha mai vinto lo scudetto, Antognoni invece con la Fiorentina ha vinto tutto, così come Giannini con la Roma e Chinaglia con la Lazio. A Futbolandia Sir Alex Ferguson ha sostituito sulla panchina dello United già da diversi lustri Sir Alexander Matthew Busby ma è da annoverare tra gli allenatori più giovani perchè el paron Rocco allena ancora il Milan con Sacchi in seconda, il mago Herrera l'Inter, Boskov la Doria, Terim il Galatasaray, Lobanovskij la Dinamo Kiev, Uccio Valcareggi l'Italia (a Futbolandia Rivera e Mazzola li fa sempre giocare insieme) e Rinus Michels insegna ancora calcio in qualche mitologica provincia meccanica. A proposito: a Futbolandia l'Olanda ha vinto i mondiali nel '74 e nel '78, l'Italia ne ha vinti quattro ma gli ultimi giocati li ha vinti l'Uruguay. A Futbolandia le semifinali dei mondiali si disputano sempre allo stadio Azteca di Città del Messico, la finale al Santiago Bernabeu. Il record di reti segnate appartiene a Puskas (che ha vinto i mondiali con l'Ungheria) ma nessuno a Futbolandia bada molto alle statistiche. A Futbolandia l'Ajax ha vinto per tre volte consecutivamente la coppa dei campioni (a Futbolandia si chiama ancora così) poi il quarto anno ha chiesto di non parteciparvi. In una recente edizione il Liverpool nel primo tempo "si è portato avanti" tre reti a zero sul Milan, salvo poi lasciarsi distrattamente rimontare e sconfiggere ai rigori. A Futbolandia partecipa alla coppa dei campioni soltanto la squadra che vince il campionato nazionale. Quest'anno vi prende parte con ragionevoli probabilità di successo il Valur Reykjavik. A Futbolandia l'Inter non ha mai vinto la coppa dei campioni e non vi partecipa dall'89, eliminata al primo turno (qui a Futbolandia si chiamano sedicesimi di finale, non preliminari) dall'Helsinborg. A Futbolandia gli europei del 2000 li ha vinti l'Italia perchè dopo il gol di Trezeguet nel primo tempo supplementare le due squadre hanno proseguito a giocare (perchè da che mondo è mondo così vanno le partite), Del Piero ha segnato una bellissima rete dopo qualche esitazione di troppo sotto porta e successivamente lo stesso Trezeguet ha fallito il rigore decisivo. A Futbolandia Zidane è figlio unico.
A Futbolandia Egidio Calloni è ancora il centravanti più prolifico del campionato italiano, il Mantova lo chiamano Ozo, il Vicenza Lanerossi. Ezio Vendrame ha vinto il pallone d'oro, salvo poi venderlo a pochi giorni di distanza a un contadino di Pordenone per quattro damigiane di refosco. Alcuni sostengono con arrischiate osservazioni che Vendrame sia stato il calciatore più forte di tutti i tempi: i matti d'amore sono bellissimi...
Negli stadi di Futbolandia tutti i sostenitori indossano la sciarpa della propria squadra, anche a maggio. I tifosi più esagitati bevono il Borghetti e alla fine del primo tempo controllano la schedina domandando i risultati parziali all'attempato vicino di posto (si fa per dire, perchè nei "popolari" degli stadi di Futbolandia i seggiolini non ci sono) munito di radio poco amplificata mentre stramaledice senza troppi raggiri gli Estintori Meteor. Al Cibali talvolta accade ancora qualcosa di clamoroso, ma sempre sul campo di gioco, mai nei dintorni. I meneghini, gran lombardi, allo stadio (che qui a Futbolandia si chiama Meazza) ci vanno tutti con il 24 che fa capolinea in piazza Axum. Le strade di Futbolandia alle sei della domenica sono spopolate e tutti guardano Novantesimo Minuto: conduce Paolo Valenti (anche a Futbolandia le sue giacche sono sempre orribili).
I bambini di Futbolandia non credono che il Gre-No-Li sia un malintenzionato androide con l'imprevidente piano di distruzione del pianeta terra; di lui si occuperà Capitan Harlock. A Futbolandia Holly e Benji viene trasmesso ancora con la sigla originale, Hutton gioca sempre nella Newppy, Price nella St.Francis, Julian Ross non ha alcuna disfunzione cardiaca e obbiettivamente è molto più forte di tutti gli altri. A Futbolandia il magazzino di Diego sembra un falansterio, si disputano leggendari tornei di subbuteo e io gioco sempre con la Cremonese (segnano sempre Dezotti e Vialli, quest'ultimo facilmente riconoscibile perchè gli hanno disegnato i calzettoni srotolati sulle caviglie) perchè mio papà per la Cremonese ha sempre tifato. Nelle scuole di Futbolandia per ogni banco è previsto un sottobanco e per ogni sottobanco un album calciatori Panini (che a Futbolandia detiene ancora un deciso e benaccetto monopolio sulla produzione di figurine) nascosto tra i sussidiari, e «io per Savicevic ti do tutte le mie doppie». Celo, celo, manca...
A Futbolandia Gianni Brera scrive ancora indimenticabili cronache calcistiche di inarrivabile levatura e i suoi soprannomi sono sempre i più belli. Senza di lui Franco Baresi, Gaetano Scirea e molti altri non sarebbero mai diventati "liberi". A Futbolandia, una volta smessi i panni da calciatore, Fulvio Collovati, Zibi Boniek e Roberto Mancini si sono cimentati nella pesca d'altura con dedizione e gratificanti ottenimenti.
A Futbolandia attualmente l'Aberdeen, l'Amburgo, l'Athletic Bilbao, il Penarol e l'Estudiantes (a Futbolandia Nesta e Ibrahimovic giocano nell'Estudiantes!) sono fortissimi. Il Borussia Dortmund gioca ancora con i calzettoni a bande orizzontali gialle e nere. In Spagna nessuna squadra porta sponsor sulle maglie, in Inghilterra invece la JVC sponsorizza l'Arsenal (che gioca ancora a Highbury e quando va in trasferta si porta la maglia gialla e blu) la Sharp lo United e la Candy il Liverpool. La maglia del Celtic di Glasgow è stata eletta la più bella per il settantunesimo anno consecutivo. Seconda ancora una volta quella del River Plate (del Rajo o del Perù che dir si voglia). Podio per la blucerchiata Doria. Anche a Futbolandia la Juventus vincerà verosimilmente il suo ennesimo titolo perchè il taciturno boemo al momento non allena (ma se lo facesse, in panchina potrebbe ancora fumare a sua discrezione invece di ricrearsi con curiosi inalatori) e il Milan è una coraggiosa squadra di impenitenti ragazzini, temibili sì, ma di tempra ancora plasmabile. Il capitano (che a Futbolandia è sempre il più vecchio della squadra) è il ventunenne Paolo Maldini.
Futbolandia è un sogno e qualcuno lo vive ad occhi aperti.
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