Fossero attori ce li goderemmo fino agli ottant’anni i nostri amori belli. Nel gioco del pallone però è impossibile. Quando addolcisce la vita dei fortunati spettatori agli Europei dell’88, Marco Van Basten di Utrecht, un metro e ottantotto di pura eleganza e classe cristallina, è stato sotto i ferri già un paio di volte. Il 25 giugno, alla finale di Monaco contro una delle ultime Urss (che in semifinale aveva eliminato l’Italia dal torneo), l’Olanda è giunta senza patemi e lo stesso svolgimento del match è, da un punto di vista drammaturgico, piuttosto banale: Gullit va a segno alla mezz’ora del primo tempo. Trame fitte, sovietici irretiti, nonostante la presenza di discreti interpreti, fra cui Mikhailichenko, Zavarov, Alejnikov, Protasov, Belanov. Van Basten sceglie il nono minuto della seconda frazione per dimostrare praticamente l’esistenza di una forma di vita superiore alla nostra. L’Urss ha appena sbagliato un calcio di rigore con Belanov, sul ribaltamento offensivo, la palla raggiunge Muhren sulla trequarti sinistra, rapida rassegna delle opzioni e cross in diagonale di abnorme lunghezza verso il fronte destro, laggiù, dove sta procedendo di gran carriera il centravanti olandese. La sollecita esecuzione di Muhren prende gli avversari in controtempo, tanto che Van Basten, con generose falcate, applica al bolide il suo occhio trigonometrico praticamente in solitudine. Il punto di chiusura della parabola è a pochi passi dal fondo, più prossimo alla bandierina che alla verticale dell’area di rigore, Van Basten l’ha individuato, ora lo fa suo in virtù di un impercettibile scarto dalla processione originaria. Il difensore russo Rats si era avvicinato in chiusura e, data la posizione defilata di Van Basten, aveva preferito non contrastarlo, temendo un letale dribbling a rientrare. Il portiere Dasaev aveva deciso di stare in mezzo, equidistante dai pali, a verificare l’ipotesi di un contro-cross. Il tiro di Van Basten non è teso, ha curva ascendente con picco ad altezza d’uomo, quindi cala sereno in rete. Un colpo al volo ad incrociare praticamente da fondo campo. Nel secondo che precedeva il compimento, si ascoltò il silenzio.
Il frammento descrittivo sopra riportato è stato tratto dal libro di Andrea Scanzi Canto del cigno (Limina, Arezzo 2004), unica biografia italiana interamente dedicata a Marco Van Basten e insieme riverbero di uno 'spazio mitico' di elogio della bellezza calcistica più autentica.
sabato 3 novembre 2007
mercoledì 31 ottobre 2007
Buon compleanno Marco
Caro Marco, sono trascorsi ormai tanti anni da quelli in cui, deo gratia, eri solito incantare l’intero pubblico dell’universo calcistico. Non mi voglio soffermare a lungo sui tuoi incommensurabili meriti calcistici, perché osservandoti molti hanno creduto che il calcio potesse divenire scienza perfetta e l'amena Utrecht un ridente idillio. Per merito tuo tutti ricordano che i basamenti dei pali del Camp Nou erano di nero pigmento nel maggio ottantanove, e grazie a te anche i siderali cross dal limite della trequarti, di Tassotti o di Muhren che fossero, in alcune circostanze riuscirono a sconfessare la loro congenita inefficacia calcistica. Mi mancano la tua garbata delicatezza, la tua educata eleganza, il tuo sorriso mai negato. Tu non sei mai scaduto in infelici finzioni (quanti perfetti e inutili buffoni…) perché le pedate, quelle vere, non te le hanno mai negate. E nemmeno quando le percosse sulle tibie risuonavano nelle tue ossa come gli urti dei gladi unni sulle insegne degli scudi imperiali recandoti un intollerabile dolore, ti trattenevi a chiedere con insolenza un provvedimento punitivo (pratica così impertinente) a scapito dell’avversario scortese. Del resto sapevi che quello era l’unico indelicato rimedio per tarparti le ali, e dev’essere per questo che con quei severi e granitici stopper non te la sei mai presa concretamente, limitandoti talora a qualche circoscritta e pittoresca locuzione vernacolare. La maglia sul campo da gioco non te la sei mai sfilata (una volta soltanto l’hai fatto, nel pruneto della fatal verona, e in quell’istante inconsciamente devo averti stimato meno del solito, ma è ragionevole pensare che -sia pur con qualche distinguo- avessi avuto tutte le attenuanti del caso per abbandonare il vessillo) perché l’essenziale sobrietà delle tue numerosissime esultanze dopo ogni rete segnata era la cosa più bella di te, con quel braccio compostamente sollevato e nessuna mancanza di rispetto per il disarmato avversario. Mi chiedo se chi oggi dopo ogni gol si improvvisa giullare di corte ti abbia mai visto giocare.
Io ero così piccolo, ma il tuo minimalista 'saltino' a piedi uniti prima di ogni rigore calciato lo ricordo bene. E voglio ricordarmi di quando, dopo una rovesciata bella quanto un Rembrandt, hai sorriso al prodigo Daniele per assicurargli che in realtà non era stato poi così faticoso segnare quattro gol in un unico incontro mentre a pochi metri di distanza lo sventurato Ravelli stramalediceva il giorno in cui scelse di diventare portiere. Certo, mi ricordo anche del tuo sconforto quando nella triste Baviera sei stato costretto alla sostituzione nell’atto finale della Coppa dei Campioni 1993 e dopo quel giorno, di non averti più rivisto indossare una maglia da gioco se non dopo oltre dieci anni quando, fresco quarantenne mai avvilito dal mal caduco, hai voluto ricordare agli amici più cari che i cigni non disimparano mai a librarsi in volo.
Con la maglia dei lancieri sembravi una longilinea crisalide, con quella rossonera uno splendido Achille e, come lui, pressoché insormontabile, con quella dei tulipani un architetto rinascimentale, qualificato innanzitutto nel progetto d’archi e chiavi di volta. E come era bella la maglia della tua nazionale! Un simulacro per un’intera generazione, così facilmente riscontrabile sui campi polverosi (o coperti di fango) di ogni oratorio milanese. Mi ricordo, mi ricordo: sempre arancioni contro bianchi, Olanda contro Germania! E non ho necessità di ricordare chi vincesse sistematicamente.
Con i blue-jeans, la camicia color salmone e la giacchetta di renna mi eri sembrato molto bello e raffinato dal secondo anello rosso, settore 211, fila 9, posto 28, prima che l’emozione riuscisse a rendere difficoltosa ogni percezione visiva. Quella sera hai maturato la saggezza che solo ai più grandi perviene, perché non sempre l’ottimismo della volontà va privilegiato sul pessimismo della ragione. Oggi gli inappuntabili abiti scuri si addicono perfettamente al lignaggio del tuo altisonante cognome che noi tutti -eccezion fatta per il compianto cabezón Sivori- pronunciavamo alla stessa maniera, incuranti dei mille fiamminghi calappi fonetici. L’accurata appariscenza della tua cravatta arancione è soltanto l’ultimo dei tuoi innumerabili colpi di classe, la classe che così indivisibilmente conviene alla nazionale che alleni con così larga dedizione.
Mi perdonerai se qualche volta, così piccolo e sprovveduto, ho raccolto tutte le mie ancora acerbe energie per magnificare le euclidee meraviglie di Rijkaard (del resto conosci la mia sensibilità per il suo distinto ruolo, forse mai più così solennemente interpretato) perchè inosservato sui banchi di scuola -paradossali anomalie calcistiche- a causa delle tue alchemiche trascendenze o delle simpatiche treccine di quel debosciato di Ruud. Mi perdonerai per quella volta nel sottopassaggio, quando per l’agognato autografo rincorsi proprio gli ardimentosi dioscuri (sto ancora aspettando che tu mi restituisca la penna Frank...) e così scosso dalle loro reali proporzioni fisiche non badai al tuo transito.
Vorrei che almeno tu, che del calcio sei stato aulico esegeta, non cedessi alle perseveranti sirene di Londra sponda blues, perché l’incanto del calcio inglese si respira altrove, e a Chelsea perlopiù non si odono che lontani echi, indefinite note di fondo di quello sfarzo confezionato ad Anfield, al vecchio Trafford o ad Highbury; a Stanford c’è spazio appena per qualche riga di statistica.
Vorrei che, conclusa la tua esperienza come commissario dell’arancia, ti recassi ad Amsterdam e restituissi gli antichi fasti all’aiacea legione. E vorrei che un giorno ti facessi riabbracciare dalla tua Milano. Sì, lo so, l’umidità mal si raccomanda alle cagionevoli caviglie dei cigni, e so che i più sprovveduti bravacci meneghini (non ti badar di loro, ma guarda e passa) potrebbero arrecarti sgradevoli fastidi chiosando un’improbabile e irriverente supremazia barbarica delle feroci discendenze germaniche -con appellativi cacofonici e dissonanti quali Lothar o Jürgen- sui maestri fiamminghi. Ma se soltanto sapessi quante volte negli ultimi trascorsi lustri ho ripensato a quella volta in cui mio padre ti votò alle elezioni politiche e ancor prima nel giugno ottantanove a quelle per il suffragio del Parlamento Europeo insieme a Galli, Tassotti, Maldini, Colombo, Costacurta, Baresi, Donadoni, Ancelotti, Gullit e Rijkaard, che con te calarono dal feudo lombardo disfandosi delle resistenze partenopee o marciarono trionfatori, magno gaudio, sulle rovine di Madrid e di Bucarest. E quante volte, nell’umano sconforto di una fredda gradinata, ho sentito dire che si ghe fusa stà il van basten…
Io ero così piccolo, ma il tuo minimalista 'saltino' a piedi uniti prima di ogni rigore calciato lo ricordo bene. E voglio ricordarmi di quando, dopo una rovesciata bella quanto un Rembrandt, hai sorriso al prodigo Daniele per assicurargli che in realtà non era stato poi così faticoso segnare quattro gol in un unico incontro mentre a pochi metri di distanza lo sventurato Ravelli stramalediceva il giorno in cui scelse di diventare portiere. Certo, mi ricordo anche del tuo sconforto quando nella triste Baviera sei stato costretto alla sostituzione nell’atto finale della Coppa dei Campioni 1993 e dopo quel giorno, di non averti più rivisto indossare una maglia da gioco se non dopo oltre dieci anni quando, fresco quarantenne mai avvilito dal mal caduco, hai voluto ricordare agli amici più cari che i cigni non disimparano mai a librarsi in volo.
Con la maglia dei lancieri sembravi una longilinea crisalide, con quella rossonera uno splendido Achille e, come lui, pressoché insormontabile, con quella dei tulipani un architetto rinascimentale, qualificato innanzitutto nel progetto d’archi e chiavi di volta. E come era bella la maglia della tua nazionale! Un simulacro per un’intera generazione, così facilmente riscontrabile sui campi polverosi (o coperti di fango) di ogni oratorio milanese. Mi ricordo, mi ricordo: sempre arancioni contro bianchi, Olanda contro Germania! E non ho necessità di ricordare chi vincesse sistematicamente.
Con i blue-jeans, la camicia color salmone e la giacchetta di renna mi eri sembrato molto bello e raffinato dal secondo anello rosso, settore 211, fila 9, posto 28, prima che l’emozione riuscisse a rendere difficoltosa ogni percezione visiva. Quella sera hai maturato la saggezza che solo ai più grandi perviene, perché non sempre l’ottimismo della volontà va privilegiato sul pessimismo della ragione. Oggi gli inappuntabili abiti scuri si addicono perfettamente al lignaggio del tuo altisonante cognome che noi tutti -eccezion fatta per il compianto cabezón Sivori- pronunciavamo alla stessa maniera, incuranti dei mille fiamminghi calappi fonetici. L’accurata appariscenza della tua cravatta arancione è soltanto l’ultimo dei tuoi innumerabili colpi di classe, la classe che così indivisibilmente conviene alla nazionale che alleni con così larga dedizione.
Mi perdonerai se qualche volta, così piccolo e sprovveduto, ho raccolto tutte le mie ancora acerbe energie per magnificare le euclidee meraviglie di Rijkaard (del resto conosci la mia sensibilità per il suo distinto ruolo, forse mai più così solennemente interpretato) perchè inosservato sui banchi di scuola -paradossali anomalie calcistiche- a causa delle tue alchemiche trascendenze o delle simpatiche treccine di quel debosciato di Ruud. Mi perdonerai per quella volta nel sottopassaggio, quando per l’agognato autografo rincorsi proprio gli ardimentosi dioscuri (sto ancora aspettando che tu mi restituisca la penna Frank...) e così scosso dalle loro reali proporzioni fisiche non badai al tuo transito.
Vorrei che almeno tu, che del calcio sei stato aulico esegeta, non cedessi alle perseveranti sirene di Londra sponda blues, perché l’incanto del calcio inglese si respira altrove, e a Chelsea perlopiù non si odono che lontani echi, indefinite note di fondo di quello sfarzo confezionato ad Anfield, al vecchio Trafford o ad Highbury; a Stanford c’è spazio appena per qualche riga di statistica.
Vorrei che, conclusa la tua esperienza come commissario dell’arancia, ti recassi ad Amsterdam e restituissi gli antichi fasti all’aiacea legione. E vorrei che un giorno ti facessi riabbracciare dalla tua Milano. Sì, lo so, l’umidità mal si raccomanda alle cagionevoli caviglie dei cigni, e so che i più sprovveduti bravacci meneghini (non ti badar di loro, ma guarda e passa) potrebbero arrecarti sgradevoli fastidi chiosando un’improbabile e irriverente supremazia barbarica delle feroci discendenze germaniche -con appellativi cacofonici e dissonanti quali Lothar o Jürgen- sui maestri fiamminghi. Ma se soltanto sapessi quante volte negli ultimi trascorsi lustri ho ripensato a quella volta in cui mio padre ti votò alle elezioni politiche e ancor prima nel giugno ottantanove a quelle per il suffragio del Parlamento Europeo insieme a Galli, Tassotti, Maldini, Colombo, Costacurta, Baresi, Donadoni, Ancelotti, Gullit e Rijkaard, che con te calarono dal feudo lombardo disfandosi delle resistenze partenopee o marciarono trionfatori, magno gaudio, sulle rovine di Madrid e di Bucarest. E quante volte, nell’umano sconforto di una fredda gradinata, ho sentito dire che si ghe fusa stà il van basten…
lunedì 29 ottobre 2007
El hincha
Il 29 ottobre 1968, il Club Atletico Velez Sarsfield sconfisse il Racing Club per quattro reti a due. Al novantesimo di gioco, l'attaccante Omar Wehbe segnò il quarto gol per la squadra vincitrice che, dieci secondi dopo, si laureava campione nazionale di calcio per la prima volta nella sua storia. Alla memoria di mio padre, morto senza vedere il Velez Sarsfield campione.
Si tratta dell'incipit introduttivo del racconto El Hincha (Il tifoso) di Mempo Giardinelli, scrittore giornalista argentino nato nel 1947 a Resistencia e autore del romanzo La rivoluzione in bicicletta.
Il racconto è contenuto nella raccolta di prose calcistiche argentine Cuentos de fútbol (Mondadori, Milano 2002). Autori Mario Benedetti, Roberto Bolaño, Alfredo Bryche Echenique, Juan Manuel de Prada, Eduardo Galeano, Mempo Giardinelli, Julio Ramon Rybeiro, Hernan Rivera Latelier, Augusto Roa Bastos, Antonio Skármeta, Osvaldo Soriano e Jorge Valdano.
Si tratta dell'incipit introduttivo del racconto El Hincha (Il tifoso) di Mempo Giardinelli, scrittore giornalista argentino nato nel 1947 a Resistencia e autore del romanzo La rivoluzione in bicicletta.
Il racconto è contenuto nella raccolta di prose calcistiche argentine Cuentos de fútbol (Mondadori, Milano 2002). Autori Mario Benedetti, Roberto Bolaño, Alfredo Bryche Echenique, Juan Manuel de Prada, Eduardo Galeano, Mempo Giardinelli, Julio Ramon Rybeiro, Hernan Rivera Latelier, Augusto Roa Bastos, Antonio Skármeta, Osvaldo Soriano e Jorge Valdano.
sabato 27 ottobre 2007
En el nombre del pulpero
Poche squadre a Futbolandia vengono magnificate quanto il Club Atlético Penarol, fondato il 28 settembre 1891 a Montevideo (originariamente con il nome di Central Uruguay Railway Cricket Club) grazie al proselitismo della considerevole comunità italiana -perlopiù di origine piemontese- residente in Uruguay e all'immancabile iniziativa della legazione britannica (El Club Atlético Peñarol fue fundado el 28 de Setiembre de 1891, gracias al impulso de 118 empleados y obreros del Ferrocarril Central del Uruguay, de los cuales 72 eran de nacionalidad inglesa, 45 uruguayos y uno alemán).
Nel 1770 el pulpero Giovan Battista Crosa, maestro della corale di Pinerolo, si trasferì a Montevideo diventando in breve tempo uno dei più facoltosi possidenti terrieri della città. Intorno ai poderi di Crosa sorse il Barrio Penarol, in nome del decoro della natia cittadina piemontese.
Il Penarol ha vinto 40 titoli nazionali (45 se considerati i tioli vinti dal CURC prima della moderna qualificazione dell'equipo avvenuta il 14 marzo 1914), 5 coppe Libertadores (nelle prime due edizioni del 1960 e '61, nel '66, nell'82 e nell'87, sconfiggendo in finale rispettivamente l'Olimpia de Asuncion, il Palmeiras Sao Paulo, il River Plate, il Cobreloa Calama e l'America Cali) e 3 coppe Intercontinentali (1961, Benfica-Penarol 1-0/0-5; 1966, Penarol-Real Madrid 2-0/2-0; 1982, Penarol-Aston Villa 2-0).
Los colores amarillo y negro a franjas verticales de la indumentaria son tan viejos como el distintivo ferroviario, como el propio ferrocarril, y hacen honor al "Rocket", locomotora de Sthephenson, vencedora de una prueba de aptitud en 1829.
José Leandro Andrade, Alcides Ghiggia (autore della rete decisiva nella finale mondiale 1950, Uruguay-Brasile 2-1, al Maracana di Rio de Janeiro), Juan Alberto Schiaffino, Julio César Abbadie, Rodolfo Sansone, Obdulio Varela, Roque Máspoli, Luis Cubilla, Diego Perez, Carlos Borges, Braulio Castro, Cefelino Camacho, Victor Hugo Diogo, Julio Cesar Cortés, Pedro Rocha, Isabelino Gradìn, Diego Aguirre, Washington Ortuno, José Luis Chilavert e Ladislao Mazurkiewicz sono i mirasoles più celebri.
In Europa hanno giocato o militano attualmente gli aurinegros Paolo Montero, Josè Perdomo, Rubén Walter Paz, Carlos el pato Aguilera, Antonio Pacheco, Dario Silva, Federico Magallanes, Diego el cachavacha Forlan, Walter el rifle Pandiani, Jorge Casanova, Carlos Diogo, Pablo el canario Garcia, Guillermo Giacomazzi e Marcelo Zalayeta. Pepe Juan Alberto Schiaffino (undici anni e cinque titoli nazionali con il Penarol) ha giocato nel Milan dal 1954 al '60 (tre scudetti) e nella Roma per due stagioni (1961 e '62), vanta 21 presenze, 8 gol e il Mondiale 1950 con la Celeste e 4 presenze con la nazionale italiana ai mondiali del '58.
Il Penarol disputa gli incontri casalinghi del campionato nazionale all'Estadio Las Acasas, eccezion fatta per i superclassici con gli storici rivali del Nacional Montevideo, abitualmente giocati nell'Estadio Centenario -monumento del futbol mundial- e teatro, il 30 luglio 1930, della prima finale mondiale (Uruguay-Argentina 4-2). Il Centenario (così designato perchè inaugurato nel 1930, cent'anni dopo la promulgazione della Costituzione della Repubblica Uruguaiana) è lo stadio designato per tutti gli incontri casalinghi della Celeste.
Un giorno impresso nel mio vivo ricordo, in un silenzio carico di presenze ho incontrato un giovane uomo di grave sembianza e sovrana inquietudine su una strada polverosa di Los Canos de Meca. Aveva il viso di un pallore uniforme color tela greggia, con zigomi alti ed esposti, occhi scuri come l'abisso e lunghi capelli sciolti sulla schiena nerboruta. Avrei pensato di imbattermi in Kaiser Soze o in Martìn Fierro se non fosse stato per uno scudo gentilizio -vistoso blasone con undici stelle- tatuato sul torso scoperto, all'altezza del cuore incalzato da esagitate palpitazioni.
Ritengo senza soluzione di continuità che la sua unica animata fede si chiamasse Penarol.
sito ufficiale http://www.capenarol.com.uy/
Nel 1770 el pulpero Giovan Battista Crosa, maestro della corale di Pinerolo, si trasferì a Montevideo diventando in breve tempo uno dei più facoltosi possidenti terrieri della città. Intorno ai poderi di Crosa sorse il Barrio Penarol, in nome del decoro della natia cittadina piemontese.
Il Penarol ha vinto 40 titoli nazionali (45 se considerati i tioli vinti dal CURC prima della moderna qualificazione dell'equipo avvenuta il 14 marzo 1914), 5 coppe Libertadores (nelle prime due edizioni del 1960 e '61, nel '66, nell'82 e nell'87, sconfiggendo in finale rispettivamente l'Olimpia de Asuncion, il Palmeiras Sao Paulo, il River Plate, il Cobreloa Calama e l'America Cali) e 3 coppe Intercontinentali (1961, Benfica-Penarol 1-0/0-5; 1966, Penarol-Real Madrid 2-0/2-0; 1982, Penarol-Aston Villa 2-0).
Los colores amarillo y negro a franjas verticales de la indumentaria son tan viejos como el distintivo ferroviario, como el propio ferrocarril, y hacen honor al "Rocket", locomotora de Sthephenson, vencedora de una prueba de aptitud en 1829.
José Leandro Andrade, Alcides Ghiggia (autore della rete decisiva nella finale mondiale 1950, Uruguay-Brasile 2-1, al Maracana di Rio de Janeiro), Juan Alberto Schiaffino, Julio César Abbadie, Rodolfo Sansone, Obdulio Varela, Roque Máspoli, Luis Cubilla, Diego Perez, Carlos Borges, Braulio Castro, Cefelino Camacho, Victor Hugo Diogo, Julio Cesar Cortés, Pedro Rocha, Isabelino Gradìn, Diego Aguirre, Washington Ortuno, José Luis Chilavert e Ladislao Mazurkiewicz sono i mirasoles più celebri.
In Europa hanno giocato o militano attualmente gli aurinegros Paolo Montero, Josè Perdomo, Rubén Walter Paz, Carlos el pato Aguilera, Antonio Pacheco, Dario Silva, Federico Magallanes, Diego el cachavacha Forlan, Walter el rifle Pandiani, Jorge Casanova, Carlos Diogo, Pablo el canario Garcia, Guillermo Giacomazzi e Marcelo Zalayeta. Pepe Juan Alberto Schiaffino (undici anni e cinque titoli nazionali con il Penarol) ha giocato nel Milan dal 1954 al '60 (tre scudetti) e nella Roma per due stagioni (1961 e '62), vanta 21 presenze, 8 gol e il Mondiale 1950 con la Celeste e 4 presenze con la nazionale italiana ai mondiali del '58.
Il Penarol disputa gli incontri casalinghi del campionato nazionale all'Estadio Las Acasas, eccezion fatta per i superclassici con gli storici rivali del Nacional Montevideo, abitualmente giocati nell'Estadio Centenario -monumento del futbol mundial- e teatro, il 30 luglio 1930, della prima finale mondiale (Uruguay-Argentina 4-2). Il Centenario (così designato perchè inaugurato nel 1930, cent'anni dopo la promulgazione della Costituzione della Repubblica Uruguaiana) è lo stadio designato per tutti gli incontri casalinghi della Celeste.
Un giorno impresso nel mio vivo ricordo, in un silenzio carico di presenze ho incontrato un giovane uomo di grave sembianza e sovrana inquietudine su una strada polverosa di Los Canos de Meca. Aveva il viso di un pallore uniforme color tela greggia, con zigomi alti ed esposti, occhi scuri come l'abisso e lunghi capelli sciolti sulla schiena nerboruta. Avrei pensato di imbattermi in Kaiser Soze o in Martìn Fierro se non fosse stato per uno scudo gentilizio -vistoso blasone con undici stelle- tatuato sul torso scoperto, all'altezza del cuore incalzato da esagitate palpitazioni.
Ritengo senza soluzione di continuità che la sua unica animata fede si chiamasse Penarol.
sito ufficiale http://www.capenarol.com.uy/
giovedì 25 ottobre 2007
Act of Supremacy
di Paolo Pegoraro
Il calcio, nella sua accezione più moderna, nasce all’interno delle United Kingdom Public School e dei college inglesi della prima metà dell’Ottocento.
A inizio secolo i rampolli dei college, autentici ‘figli di papà’, praticavano uno sport profondamente diverso da quello a cui siamo abituati. Si trattava di uno sport molto violento, dal momento che qualsiasi tipologia di contatto fisico era tollerata. Parte integrante del gioco erano gli hacking, i calci alle tibie, che costituivano quasi una regola fondamentale del gioco, al pari dei passaggi o dei tiri verso la porta. Uno sport pertanto elitario ed estremamente violento, in cui gli studenti più ‘anziani’ e robusti primeggiavano grazie alla loro prestanza fisica nei confronti degli allievi più giovani; a poco servivano i rimproveri degli educatori che, in quanto esponenti di una classe sociale inferiore rispetto a quelle dei loro allievi, venivano sprezzati.
Le cose cambiarono radicalmente quando la borghesia industriale assunse il controllo dei college: venne ripristinata l’autorità degli insegnanti e migliorata la gestione delle attività ricreative. Lo sport abbandona così il suo carattere elitario acquisendo una dimensione più popolare. Sir Thomas Arnold, rettore dell’Università di Rugby, incoraggia un profondo rinnovamento del gioco del calcio, volto a eliminarne gli aspetti più brutali e violenti. Eton e Harrow -due tra i più prestigiosi college inglesi- aboliscono i temibili hacking e proibiscono l’uso delle mani durante il gioco. Successivamente viene istituito il ruolo del goalkeeper e vengono regolamentate le dimensioni delle porte e dei campi da gioco.
La data cruciale per la nascita del calcio moderno è il 26 ottobre 1863, quando nella Freemason Tavern di Londra si incontrano i delegati dei principali college inglesi con l’obbiettivo di uniformare definitivamente tutti i regolamenti del gioco del calcio. Da una parte ci sono i sostenitori dell’uso delle mani e di un certo grado di violenza, dall’altra i seguaci di Sir Thomas Arnold, promotori di un gioco meno brutale e dell’abolizione dell’utilizzo delle mani. Si verifica lo scisma: i delegati della prima corrente di pensiero danno vita alla Rugby Football Union, quelli della seconda fondano la Football Association.
Il calcio, nella sua accezione più moderna, nasce all’interno delle United Kingdom Public School e dei college inglesi della prima metà dell’Ottocento.
A inizio secolo i rampolli dei college, autentici ‘figli di papà’, praticavano uno sport profondamente diverso da quello a cui siamo abituati. Si trattava di uno sport molto violento, dal momento che qualsiasi tipologia di contatto fisico era tollerata. Parte integrante del gioco erano gli hacking, i calci alle tibie, che costituivano quasi una regola fondamentale del gioco, al pari dei passaggi o dei tiri verso la porta. Uno sport pertanto elitario ed estremamente violento, in cui gli studenti più ‘anziani’ e robusti primeggiavano grazie alla loro prestanza fisica nei confronti degli allievi più giovani; a poco servivano i rimproveri degli educatori che, in quanto esponenti di una classe sociale inferiore rispetto a quelle dei loro allievi, venivano sprezzati.
Le cose cambiarono radicalmente quando la borghesia industriale assunse il controllo dei college: venne ripristinata l’autorità degli insegnanti e migliorata la gestione delle attività ricreative. Lo sport abbandona così il suo carattere elitario acquisendo una dimensione più popolare. Sir Thomas Arnold, rettore dell’Università di Rugby, incoraggia un profondo rinnovamento del gioco del calcio, volto a eliminarne gli aspetti più brutali e violenti. Eton e Harrow -due tra i più prestigiosi college inglesi- aboliscono i temibili hacking e proibiscono l’uso delle mani durante il gioco. Successivamente viene istituito il ruolo del goalkeeper e vengono regolamentate le dimensioni delle porte e dei campi da gioco.
La data cruciale per la nascita del calcio moderno è il 26 ottobre 1863, quando nella Freemason Tavern di Londra si incontrano i delegati dei principali college inglesi con l’obbiettivo di uniformare definitivamente tutti i regolamenti del gioco del calcio. Da una parte ci sono i sostenitori dell’uso delle mani e di un certo grado di violenza, dall’altra i seguaci di Sir Thomas Arnold, promotori di un gioco meno brutale e dell’abolizione dell’utilizzo delle mani. Si verifica lo scisma: i delegati della prima corrente di pensiero danno vita alla Rugby Football Union, quelli della seconda fondano la Football Association.
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