mercoledì 31 ottobre 2007

Buon compleanno Marco

Caro Marco, sono trascorsi ormai tanti anni da quelli in cui, deo gratia, eri solito incantare l’intero pubblico dell’universo calcistico. Non mi voglio soffermare a lungo sui tuoi incommensurabili meriti calcistici, perché osservandoti molti hanno creduto che il calcio potesse divenire scienza perfetta e l'amena Utrecht un ridente idillio. Per merito tuo tutti ricordano che i basamenti dei pali del Camp Nou erano di nero pigmento nel maggio ottantanove, e grazie a te anche i siderali cross dal limite della trequarti, di Tassotti o di Muhren che fossero, in alcune circostanze riuscirono a sconfessare la loro congenita inefficacia calcistica. Mi mancano la tua garbata delicatezza, la tua educata eleganza, il tuo sorriso mai negato. Tu non sei mai scaduto in infelici finzioni (quanti perfetti e inutili buffoni…) perché le pedate, quelle vere, non te le hanno mai negate. E nemmeno quando le percosse sulle tibie risuonavano nelle tue ossa come gli urti dei gladi unni sulle insegne degli scudi imperiali recandoti un intollerabile dolore, ti trattenevi a chiedere con insolenza un provvedimento punitivo (pratica così impertinente) a scapito dell’avversario scortese. Del resto sapevi che quello era l’unico indelicato rimedio per tarparti le ali, e dev’essere per questo che con quei severi e granitici stopper non te la sei mai presa concretamente, limitandoti talora a qualche circoscritta e pittoresca locuzione vernacolare. La maglia sul campo da gioco non te la sei mai sfilata (una volta soltanto l’hai fatto, nel pruneto della fatal verona, e in quell’istante inconsciamente devo averti stimato meno del solito, ma è ragionevole pensare che -sia pur con qualche distinguo- avessi avuto tutte le attenuanti del caso per abbandonare il vessillo) perché l’essenziale sobrietà delle tue numerosissime esultanze dopo ogni rete segnata era la cosa più bella di te, con quel braccio compostamente sollevato e nessuna mancanza di rispetto per il disarmato avversario. Mi chiedo se chi oggi dopo ogni gol si improvvisa giullare di corte ti abbia mai visto giocare.
Io ero così piccolo, ma il tuo minimalista 'saltino' a piedi uniti prima di ogni rigore calciato lo ricordo bene. E voglio ricordarmi di quando, dopo una rovesciata bella quanto un Rembrandt, hai sorriso al prodigo Daniele per assicurargli che in realtà non era stato poi così faticoso segnare quattro gol in un unico incontro mentre a pochi metri di distanza lo sventurato Ravelli stramalediceva il giorno in cui scelse di diventare portiere. Certo, mi ricordo anche del tuo sconforto quando nella triste Baviera sei stato costretto alla sostituzione nell’atto finale della Coppa dei Campioni 1993 e dopo quel giorno, di non averti più rivisto indossare una maglia da gioco se non dopo oltre dieci anni quando, fresco quarantenne mai avvilito dal mal caduco, hai voluto ricordare agli amici più cari che i cigni non disimparano mai a librarsi in volo.
Con la maglia dei lancieri sembravi una longilinea crisalide, con quella rossonera uno splendido Achille e, come lui, pressoché insormontabile, con quella dei tulipani un architetto rinascimentale, qualificato innanzitutto nel progetto d’archi e chiavi di volta. E come era bella la maglia della tua nazionale! Un simulacro per un’intera generazione, così facilmente riscontrabile sui campi polverosi (o coperti di fango) di ogni oratorio milanese. Mi ricordo, mi ricordo: sempre arancioni contro bianchi, Olanda contro Germania! E non ho necessità di ricordare chi vincesse sistematicamente.
Con i blue-jeans, la camicia color salmone e la giacchetta di renna mi eri sembrato molto bello e raffinato dal secondo anello rosso, settore 211, fila 9, posto 28, prima che l’emozione riuscisse a rendere difficoltosa ogni percezione visiva. Quella sera hai maturato la saggezza che solo ai più grandi perviene, perché non sempre l’ottimismo della volontà va privilegiato sul pessimismo della ragione. Oggi gli inappuntabili abiti scuri si addicono perfettamente al lignaggio del tuo altisonante cognome che noi tutti -eccezion fatta per il compianto cabezón Sivori- pronunciavamo alla stessa maniera, incuranti dei mille fiamminghi calappi fonetici. L’accurata appariscenza della tua cravatta arancione è soltanto l’ultimo dei tuoi innumerabili colpi di classe, la classe che così indivisibilmente conviene alla nazionale che alleni con così larga dedizione.
Mi perdonerai se qualche volta, così piccolo e sprovveduto, ho raccolto tutte le mie ancora acerbe energie per magnificare le euclidee meraviglie di Rijkaard (del resto conosci la mia sensibilità per il suo distinto ruolo, forse mai più così solennemente interpretato) perchè inosservato sui banchi di scuola -paradossali anomalie calcistiche- a causa delle tue alchemiche trascendenze o delle simpatiche treccine di quel debosciato di Ruud. Mi perdonerai per quella volta nel sottopassaggio, quando per l’agognato autografo rincorsi proprio gli ardimentosi dioscuri (sto ancora aspettando che tu mi restituisca la penna Frank...) e così scosso dalle loro reali proporzioni fisiche non badai al tuo transito.
Vorrei che almeno tu, che del calcio sei stato aulico esegeta, non cedessi alle perseveranti sirene di Londra sponda blues, perché l’incanto del calcio inglese si respira altrove, e a Chelsea perlopiù non si odono che lontani echi, indefinite note di fondo di quello sfarzo confezionato ad Anfield, al vecchio Trafford o ad Highbury; a Stanford c’è spazio appena per qualche riga di statistica.
Vorrei che, conclusa la tua esperienza come commissario dell’arancia, ti recassi ad Amsterdam e restituissi gli antichi fasti all’aiacea legione. E vorrei che un giorno ti facessi riabbracciare dalla tua Milano. Sì, lo so, l’umidità mal si raccomanda alle cagionevoli caviglie dei cigni, e so che i più sprovveduti bravacci meneghini (non ti badar di loro, ma guarda e passa) potrebbero arrecarti sgradevoli fastidi chiosando un’improbabile e irriverente supremazia barbarica delle feroci discendenze germaniche -con appellativi cacofonici e dissonanti quali Lothar o Jürgen- sui maestri fiamminghi. Ma se soltanto sapessi quante volte negli ultimi trascorsi lustri ho ripensato a quella volta in cui mio padre ti votò alle elezioni politiche e ancor prima nel giugno ottantanove a quelle per il suffragio del Parlamento Europeo insieme a Galli, Tassotti, Maldini, Colombo, Costacurta, Baresi, Donadoni, Ancelotti, Gullit e Rijkaard, che con te calarono dal feudo lombardo disfandosi delle resistenze partenopee o marciarono trionfatori, magno gaudio, sulle rovine di Madrid e di Bucarest. E quante volte, nell’umano sconforto di una fredda gradinata, ho sentito dire che si ghe fusa stà il van basten…

3 commenti:

Anonimo ha detto...

commovente, veramente toccante...mi sneto in dovere di scriverne 1 pure io. sarà banale, ma il cigno è sempre il CIGNO!!!

Anonimo ha detto...

un omaggio molto romantico al nostro Marco...mi sembra un canto dell'Iliade! del resto,si tratta di una divinità!bravo Fabio
pego

Anonimo ha detto...

grande marco