domenica 30 dicembre 2007

Siamo poveri forse (parte seconda)

Una vittoria giusta, meritata, esaltante perché sofferta per centoventi lunghi minuti durante i quali più di una volta le speranze argentine accennavano a spegnersi, e con loro quelle di venticinque milioni di... giocatori fuori campo. Una vittoria giusta, conquistata dalla squadra di Cesar Luis Menotti, non dalla polizia di Jorge Rafael Videla e neppure dei tifosi; questo era il dubbio della vigilia: quanto sarebbe pesato, sulla sfida mondiale, il fervore sviscerato della folla, la «hinciada», la tifoseria di costì, è invece simile a quella di tanti Paesi meridionali, pronta a esplodere come ad abbattersi, mai utile nei momenti cruciali; entusiasmo alle stelle prima della partita, con una pioggia di «papelitos» (pezzi di carta) assolutamente inedita; eppoi gioia frenetica al primo gol di Kempes, il fantastico «matador» argentino, l'unica vera stella di questo Mundial di cui -con sei gol- si è laureato anche capocannoniere; Al gol di Nanninga, giunto a nove minuti dalla fine quando ognuno in cuor suo già pregustava la festa, prima un grande silenzio poi un urlo disperato raggelavano il River. E ancora silenzio e paura nei minuti del primo tempo supplementare, mentre l'Argentina andava organizzandosi con molta freddezza, mostrando un volto inedito, quello della ragione.A mio avviso, Menotti ha vinto il suo Mundial in questi undici minuti di passione, dando alla squadra una impronta... italiana (ed è indubbio che la sconfitta con l'Italia gli ha insegnato qualcosa); ci si poteva aspettare, da un complesso pesantemente sbilanciato in avanti (e con un uomo nullo come Luque) e frustrato dall'inopinato pareggio olandese, una sorta di cieca carica suicida a testa bassa; e invece i biancazzurri si sono disposti saggiamente sulla difensiva e hanno risposto con ficcanti sortite in contropiede alle sfuriate massicce e pericolose degli olandesi, finendoli poi con un'altra sortita vincente di Kempes, avventatosi verso la rete avversaria con una spinta inarrestabile e tutta la sua non comune classe di autentico campione. Era il 2-1, la fine di un incubo, l'inizio di un trionfo che di lì a pochi minuti Bertoni (l'uomo che un anno fa aveva detto sorridendo: «Ho sognato di diventare campione del mondo») avrebbe definitivamente siglato.Una vittoria giusta e meritata, questa, anche perché gli olandesi hanno dato fondo alle loro buone risorse di fisico e dì tecnica per conquistare il titolo mondiale strappatogli dai tedeschi quattro anni prima.
Gli uomini di Happel hanno ripetuto la partita giocata con tro l'Italia, e devono imprecare alla malasorte che non gli ha fatto trovare... un altro Zoff, nella porta avversaria, ma un Fillol che si è superato, esibendosi in almeno un paio di occasioni, in parate da grande campione. Tutto questo sono riusciti a fare, gli olandesi, e hanno anche ottenuto un provvisorio pareggio, nonostante almeno quarantacinque minuti di arbitraggio gli fossero stati decisamente avversi. Non intendo muovere pesanti accuse (come altri ha fatto) a Sergio Gonella, che ha ben rappresentato l'Italia in questa finalissima mondiale amaramente e scioccamente perduta dagli azzurri: voglio solo dire che ha peccato nell'affidarsi ciecamente ai suoi collaboratori, segnatamente all'austriaco Linemayer che ha inventato incredibili fuorigioco degli olandesi nella prima fase del match. Gonella ha anche ecceduto nel fischiar falli nella prima parte della gara, ma si è, visto dopo -quando la partita è proseguita all'insegna della massima regolarità- che la sua severità era adeguata ad un match iniziatosi all'insegna del nervosismo, addirittura preceduto da quel singolare gesto di rinuncia degli olandesi che nella tribuna stampa del River aveva fatto subito dire a tanti: «Ecco, l'Olanda fa una protesta politica, rifiuta di battersi con gli argentini». E invece si trattava solo di eseguire una richiesta dell'arbitro: Willy Van de Kerkhof aveva una fasciatura gessata a una mano e non poteva giocare in quelle condizioni: questa l'opinione degli argentini condivisa -regolamento alla mano- da Gonella. il seguito della partita -come dicevo- ha visto Gonella arbitrare con molta disinvoltura ed efficacia, e tuttavia fa sua prova non può restare indenne da critiche soprattutto per il motivo cui già ho accennato: l'arbitro italiano ha concesso l'eccessiva fiducia a Linemayer e a Barreto, i quali tendevano a favore gli argentini, a ignorarne i falli, a vedere solo quelli degli olandesi o addirittura a inventarne a loro danno. Questo discorso potrebbe portare lontano: mi limiterò a dire che è sbagliato utilizzare in ruoli di guardalinee arbitri titolati che subiscono il... declassamento con malcelato disappunto e tendono ad esprimersi in questo ruolo importante ma secondario con la loro personalità di «primi fischi-primedonne»; quello del guardalinee è un altro mestiere, importantissimo ma più oscuro. Se si deve -dunque- giudicare la terna arbitrale di Argentina-Olanda nel suo complesso, non si può non rilevarne errori e incertezze non degni di una finalissima mondiale.
Con tutto questo -dicevo- l'Argentina ha meritato la sua vittoria che è anche motivo di duplice consolazione per noi: prima perché l'Olanda ha dimostrato che la sua vittoria sull'Italia non era stata casuale, poi perché -al tirar delle somme- gli unici che hanno battuto l'argentina «Mundial» siamo noi, italianuzzi sottovalutati e sorprendenti che proprio con la squadra di Menotti abbiamo giocato la partita più bella e intelligente. Questo accenno agli azzurri ci riporta indietro (e Dio sa se rinuncerei volentieri a questo flash-back) alla prima parte del «film delle finali», a quella di sabato, cioè, fra Italia e Brasile, detta anche beffardamente «final de perdidores», il match dei vinti. Ero certo che in condizioni normali l'Italia avrebbe battuto il Brasile, fosse questo avversario di terzo posto o di finalissima; ma quella di sabato, oltreché priva di due uomini-chiave come Benetti e Tardelli (ammoniti dal deprecabile Martinez al fine di ottenerne una squalifica che agevolasse l'Argentina in una eventuale finale con gli azzurri) era una formazione infelice per ben altri motivi, per precise scelte di Bearzot che non ho condiviso.
Patrizio Sala è andato bene per un tempo, ed era tutto quello che poteva fare, soprattutto giovandosi di una fase di gioco favorevole per noi; poi doveva essere sostituito, magari da Claudio Sala, che invece è entrato al posto di un Antognoni meno incerto del solito (ma che delusione, nel complesso: se stava male, perché portarlo a offuscare la sua piccola gloria nazionale davanti a una platea mondiale?). E Aldo Maldera? è stato del tutto inutile, un corpo estraneo nel nucleo della Nazionale, e non è il caso di aggiungere altro. Bearzot ha poi rinunciato all'inserimento di Graziani subito dopo il vantaggio acquisito dal Brasile. Ma si trattava — comunque — di una squadra che aveva già dato tutto, come ha dimostrato appena portatasi in vantaggio grazie al fenomenale spunto personale di Rossi e al bellissimo colpo di testa di Causio (la coppia più bella, forse, del clan azzurro): subito dopo, come con l'Olanda, tutti a casa, a difendere un'improbabile vittoria. Coutinho, invece, ha inserito un Reinaldo che ha rovesciato la partita come un guanto e ha favorito il successo dei brasiliani. Se è giusto criticare Bearzot, che dire di questo militar-ginnasiarca che ha azzeccato la formazione giusta solo nel secondo tempo dell'ultima partita? Cala ora la tela sul «Mundial», ma tante cose ci saranno da dire, ancora, sulla manifestazione (che necessita di approfondimenti di vario genere) e sull'Argentina, un Paese che merita amore e solidarietà, ma anche un esame sereno e obiettivo dei suoi problemi, un esame che ho promesso ai lettori e che cercherò di approfondire, prossimamente, senza reticenze. Torniamo a casa, tutto sommato, soddisfatti di quel che l'Italia ha fatto, delle nuove risorse del nostro calcio evidenziate davanti al pubblico di tutto il mondo, un pubblico esigente di tecnici e spettatori che ci hanno coperto di complimenti; soddisfatti soprattutto di avere veduto giusto nel segnalare a tutti (l'abbiamo fatto noi per primi, e ne siamo orgogliosi) un grande talento, quel Paolino Rossi che ha segnato gol decisivi, strappato applausi a scena aperta, e che promette un futuro ancora più bello. Per questo non piangeremo sul latte versato, augurando a Bearzot di trarre utili indicazioni dai successi e dalle sconfitte nel momento in cui si prepara a iniziare il delicato lavoro che ci porterà al Campionato d'Europa. Grazie a tutti gli azzurri, dunque, per quel che di buono ci hanno offerto.E un grazie di cuore -permettetemelo- a Bernard Lacombe. Non è stato forse lui, con quel gol bellissimo e maligno al trentaduesimo secondo di Italia-Francia a Mar del Plata, a farci scoprire un'Italia migliore?

di Italo Cucci, Guerin Sportivo, giugno 1978

sabato 29 dicembre 2007

Siamo poveri forse

BUENOS AIRES. Al fischio di chiusura di Sergio Gonella, dopo centoventi minuti di emozionante sfida, l'Argentina ha conquistato il suo primo titolo mondiale mentre gli ottantamila del River Plate erano vestiti di una sola bandiera, quella biancoazzurra, e gridavano -scandendola- una sola parola: «AR-GEN-TI-NA». in quell'attimo, chi ha potuto ha guadagnato frettolosamente l'uscita dello stadio a costo di essere scambiato per un tifoso olandese amareggiato. Era solo prudenza, invece: perché si sapeva che, di lì a poco, sarebbe scoppiata la rivoluzione.
Intorno al River Plate, un deserto che già minacciava di animarsi di una folla entusiasta, il frastuono che saliva carne un urlo di disperata gioia dal catino dello stadio, e da lontano l'eco di sirene, trombe, clacson che in ogni parte della metropoli già tifosi frenetici suonavano per sottolineare il grande, storico successo dell'Argentina e la prova maiuscola, davvero mondiale, di Mario Kempes, il «matador». Mi sono trovato quasi solo, mentre la festa del River continuava, come naufrago smarrito in gran tempesta. Intorno a me, un nugolo di poliziotti indecisi fra l'atteggiamento ufficiale e la voglia di gridare anche loro la gioia «mundial». Alcuni sventolavano banderillas biancazzurre, altri rispondevano con un gride agli sventolii e alle grida delle prime auto solitarie che sopraggiungevano nei pressi della «cancha» infuocata. Un poliziotto comprese il mio problema: come raggiungere il centro? «Esperamè, amigo», aspettami: fermò una macchina, confabulando un attimo con l'uomo che era alla guida, accompagnato da una donna e da un bimbo, poi aprì lo sportello: «Adios senor periodista, y suerte», buona-fortuna. Così cominciò un incredibile viaggio in una macchina gonfia di bandiere e poco dopo in mezzo a una fiumana di popolo biancoceleste che copriva con grida e canti il frastuono di migliaia di auto tutte dirette, come poche sere prima -dopo Argentina-Perù- verso l'obelisco il cuore della città, il cuore dell'intero Paese. Il mio amabile accompagnatore mi scoprì italiano: «Sono italiano anch'io, mi chiamo Testa, vengo da Olivos a festeggiare il trionfo della mia patria. La prego, scriva una cosa per me: dica che in Argentina ha vinto la pace.
Siamo poveri, forse, ma felici, onesti e vogliamo che tutto il mondo lo sappia». Si fa presto a cadere nella retorica, davanti a queste vicende, a queste affermazioni di sincera umanità, ma non si deve vergognarsene. Appena un mese fa, partendo dall'Italia, ognuno di noi portava nel cuore una grande paura: quella di partecipare a una drammatica cerimonia intrisa più di odio ohe dì amore, di motivi politici più che di sport. Ma fin dal primo giorno qualcosa è cambiato in noi, man mano che ci s'imbatteva in questa gente impagabile che da sempre ha conosciuto amarezze e che finalmente si apprestava ad un banchetto di felicità e voleva condividerla con tutti, con gli stranieri in particolare. Ogni straniero ohe arrivava a Baires costituiva per gli argentini una minaccia, una paura, un esame da superare. E non ci hanno provato in cento, in mille, in centomila: ma in venticinque milioni. Era la scritta che si leggeva dappertutto, a cominciar dall'aeroporto di Ezeiza: «venticinque milioni di argentini giocano il mondiale». L'hanno giocato e l'hanno vinto. Contro tutto e contro tutti. Contro i nemici interni (pochi) e quelli esterni, tanti; contro il sospetto e la malafede di chi voleva cancellare con un solo colpo di spugna le speranze di tanta gente, credendo con ciò di dare un duro colpo ad un regime che ha i suoi lati oscuri (e ne parleremo, nei prossimi giorni) e invece avrebbe condannato a trasformarsi in incubi i sogni del popolo più desideroso di pace che ci sia al mondo. Perché solo chi è uscito da una grande tragedia, e ancora ne sente il peso, come il popolo argentino, può capire quanto valgano la pace, l'amore, la fraternità, la libertà.
Tutto questo è riuscito a fare il calcio, imponendosi all'attenzione del mondo come una delle rare risorse idi pacificazione in tempo di odio fratricida. Forse qualcuno troverà insoliti e fuori posto questi argomenti all'Inizio di un commento che riguarda una vicenda dello sport: eppure, così come il primo sentimento che ci ha accompagnato costì era la paura, è altrettanto vero che la prima sensazione che si è provata all'ultimo minuto del «Mundial» è stata di grande soddisfazione: siamo noi, uomini per diversi motivi dati allo sport, gli ultimi ambasciatori della pace, gli ultimi abitanti di un paese felice. E adesso, Argentina Mundial.

di Italo Cucci, Guerin Sportivo, giugno 1978

venerdì 28 dicembre 2007

Umberto Saba: ultimo uomo sul monte

Tre momenti
Di corsa usciti a mezzo il campo, date
prima il saluto alle tribune. Poi,
quello che nasce poi,
che all'altra parte rivolgete, a quella
che più nera si accalca, non è cosa
da dirsi, non è cosa ch'abbia un nome.

Il portiere su e giù cammina come
sentinella. Il pericolo
lontano è ancora.
Ma se in un nembo s'avvicina, oh allora
una giovane fiera si accovaccia
e all'erta spia.

Festa è nell'aria, festa in ogni via.
Se per poco, che importa?
Nessun'offesa varcava la porta,
s'incrociavano grida ch'eran razzi.
La vostra gloria, undici ragazzi,
come un fiume d'amore orna Trieste.

Squadra paesana
Anch'io tra i molti vi saluto,
rosso-alabardati, sputati
dalla terra natia, da tutto un popolo amati.
Trepido seguo il vostro gioco.
Ignari
esprimete con quello antiche cose
meravigliose sopra il verde tappeto,
all'aria, ai chiari soli d'inverno.

Le angoscie che imbiancano

i capelli all'improvviso,
sono da voi così lontane!

La gloria vi dà un sorriso fugace:
il meglio onde disponga.
Abbracci corrono tra di voi, gesti giulivi.

Giovani siete, per la madre vivi;
vi porta il vento a sua difesa. V'ama
anche per questo il poeta, dagli altri
diversamente - ugualmente commosso.


Goal
Il portiere caduto alla difesa

ultima vana, contro terra, cela.
Il compagno in ginocchio che lo induce,
con parole e con mano,a sollevarsi,
scopre pieni di lacrime i suoi occhi.
La folla - unita ebbrezza - par trabocchi
nel campo; intorno al vincitore stanno,
al suo collo si gettano i fratelli.
Pochi momenti come questo belli,
a quanti l'odio consuma e l'amore,
è dato sotto il cielo, di vedere.
Presso alla rete inviolata il portiere,
l'altro - è rimasto; ma non la sua anima,
con la persona vi è rimasto sola.
La sua gioia si fa una capriola,
si fa baci che manda di lontano.
Della festa - egli dice - anch'io son parte....

Tredicesima Partita
Sui gradini un manipolo sparuto
si riscaldava di se stesso.
E quando -smisurata raggiera- il sole spense
dietro una casa il suo barbaglio, il campo
schiarì il presentimento della notte.
Correvano sue e giù le maglie rosse,
le maglie bianche, in una luce d’una
strana iridata trasparenza. Il vento
deviava il pallone, la Fortuna
si rimetteva agli occhi la benda.
Piaceva essere così pochi intirizziti uniti,
come ultimi uomini su un monte,
a guardare di là l’ultima gara.


Fanciulli allo stadio
Galletto
è alla voce il fanciullo; estrosi amori
con quella, e crucci, acutamente incide.
Ai confini del campo una bandiera

sventola solitaria su un muretto.
Su quello alzati, nei riposi, a gara
cari nomi lanciavano i fanciulli,
ad uno ad uno, come frecce. Vive
in me l'immagine lieta; a un ricordo
si sposa - a sera - dei miei giorni imberbi.
Odiosi di tanto eran superbi

passavano là sotto i calciatori.
Tutto vedevano, e non quegli acerbi.

Umberto Saba, Opere, Meridiani Mondadori, vol.I, Milano 2001.

giovedì 27 dicembre 2007

Pier Paolo Pasolini: ala destra

Il football è un sistema di segni, cioè un linguaggio. Esso ha tutte le caratteristiche fondamentali del linguaggio per eccellenza, quello che noi ci poniamo subito come termine di confronto, ossia il linguaggio scritto-parlato.
Infatti le “parole” del linguaggio del calcio si formano esattamente come le parole del linguaggio scritto-parlato. Ora, come si formano queste ultime? Esse si formano attraverso la cosiddetta “doppia articolazione” ossia attraverso le infinite combinazioni dei “fonemi”: che sono, in italiano, le 21 lettere dell’alfabeto.
I “fonemi” sono dunque le “unità minime” della lingua scritto-parlata. Vogliamo divertirci a definire l’unità minima della lingua del calcio? Ecco: “Un uomo che usa i piedi per calciare un pallone” è tale unità minima: tale “podema” (se vogliamo continuare a divertirci). Le infinite possibilità di combinazione dei “podemi” formano le “parole calcistiche”: e l’insieme delle “parole calcistiche” forma un discorso, regolato da vere e proprie norme sintattiche.
I “podemi” sono ventidue (circa, dunque, come i fonemi): le “parole calcistiche” sono potenzialmente infinite, perché infinite sono le possibilità di combinazione dei “podemi” (ossia, in pratica, dei passaggi del pallone tra giocatore e giocatore); la sintassi si esprime nella “partita”, che è un vero e proprio discorso drammatico.
I cifratori di questo linguaggio sono i giocatori, noi, sugli spalti, siamo i decifratori: in comune dunque possediamo un codice.
Chi non conosce il codice del calcio non capisce il “significato” delle sue parole (i passaggi) né il senso del suo discorso (un insieme di passaggi).
Non sono né Roland Barthes né Greimas, ma da dilettante, se volessi, potrei scrivere un saggio ben più convincente di questo accenno, sulla “lingua del calcio”. Penso, inoltre, che si potrebbe anche scrivere un bel saggio intitolato Propp applicato al calcio: perché, naturalmente, come ogni lingua, il calcio ha il suo momento puramente “strumentale” rigidamente e astrattamente regolato dal codice, e il suo momento “espressivo”.
Ho detto infatti qui sopra come ogni lingua si articoli in varie sottolingue, in possesso ciascuna di un sottocodice.
Ebbene, anche per la lingua del calcio si possono fare distinzioni del genere: anche il calcio possiede dei sottocodici, dal momento in cui, da puramente strumentale, diventa espressivo.
Ci può essere un calcio come linguaggio fondamentalmente prosastico e un calcio come linguaggio fondamentalmente poetico.
Per spiegarmi, darò – anticipando le conclusioni – alcuni esempi: Bulgarelli gioca un calcio in prosa: egli è un “prosatore realista”; Riva gioca un calcio in poesia: egli è un “poeta realista”.
Corso gioca un calcio in poesia, ma non è un “poeta realista”: è un poeta un po’ maudit, extravagante.
Rivera gioca un calcio in prosa: ma la sua è una prosa poetica, da “elzeviro”. Anche Mazzola è un elzevirista, che potrebbe scrivere sul “Corriere della Sera”: ma è più poeta di Rivera; ogni tanto egli interrompe la prosa, e inventa lì per lì due versi folgoranti.
Si noti bene che tra la prosa e la poesia non faccio distinzione di valore; la mia è una distinzione puramente tecnica.
Tuttavia intendiamoci: la letteratura italiana, specie recente, è la letteratura degli “elzeviri”: essi sono eleganti e al limite estetizzanti: il loro fondo è quasi sempre conservatore e un po’ provinciale… insomma, democristiano. Fra tutti i linguaggi che si parlano in un Paese, anche i più gergali e ostici, c’è un terreno comune: che è la “cultura” di quel Paese: la sua attualità storica.
Così, proprio per ragioni di cultura e di storia, il calcio di alcuni popoli è fondamentalmente in prosa: prosa realistica o prosa estetizzante (quest’ultimo è il caso dell’Italia): mentre il calcio di altri popoli è fondamentalmente in poesia.
Ci sono nel calcio dei momenti che sono esclusivamente poetici: si tratta dei momenti del “goal”. Ogni goal è sempre un’invenzione, è sempre una sovversione del codice: ogni goal è ineluttabilità, folgorazione, stupore, irreversibilità. Proprio come la parola poetica. Il capocannoniere di un campionato è sempre il miglior poeta dell’anno. In questo momento lo è Savoldi. Il calcio che esprime più goals è il calcio più poetico.
Anche il “dribbling” è di per sé poetico (anche se non “sempre” come l’azione del goal). Infatti il sogno di ogni giocatore (condiviso da ogni spettatore) è partire da metà campo, dribblare tutti e segnare. Se, entro i limiti consentiti, si può immaginare nel calcio una cosa sublime, è proprio questa. Ma non succede mai. E un sogno (che ho visto realizzato solo nei Maghi del pallone da Franco Franchi, che, sia pure a livello brado, è riuscito a essere perfettamente onirico).
Chi sono i migliori “dribblatori” del mondo e i migliori facitori di goals? I brasiliani. Dunque il loro calcio è un calcio di poesia: ed esso è infatti tutto impostato sul dribbling e sul goal.
Il catenaccio e la triangolazione (che Brera chiama geometria) è un calcio di prosa: esso è infatti basato sulla sintassi, ossia sul gioco collettivo e organizzato: cioè sull’esecuzione ragionata del codice. Il suo solo momento poetico è il contropiede, con l’annesso “goal” (che, come abbiamo visto, non può che essere poetico). Insomma, il momento poetico del calcio sembra essere (come sempre) il momento individualistico (dribbling e goal; o passaggio ispirato).
Il calcio in prosa è quello del cosiddetto sistema (il calcio europeo): il suo schema è il seguente:
il “goal”, in questo schema, è affidato alla “conclusione”, possibilmente di un “poeta realistico” come Riva, ma deve derivare da una organizzazione di gioco collettivo, fondato da una serie di passaggi “geometrici” eseguiti secondo le regole del codice (Rivera in questo è perfetto: a Brera non piace perché si tratta di una perfezione un po’ estetizzante, e non realistica, come nei centrocampisti inglesi o tedeschi).
Il calcio in poesia è quello del calcio latino-americano: il suo schema è il seguente:
schema che per essere realizzato deve richiedere una capacità mostruosa di dribblare (cosa che in Europa è snobbata in nome della “prosa collettiva”): e il goal può essere inventato da chiunque e da qualunque posizione.
Se dribbling e goal sono i momenti individualistici-poetici del calcio, ecco quindi che il calcio brasiliano è un calcio di poesia. Senza far distinzione di valore, ma in senso puramente tecnico, in Messico [Mondiali '70] è stata la prosa estetizzante italiana a essere battuta dalla poesia brasiliana.

[Pier Paolo Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, Vol. II, Meridiani Mondadori, Milano 1999]


Senza cinema, senza scrivere, che cosa le sarebbe piaciuto diventare?
Un bravo calciatore. Dopo la letteratura e l’eros, per me il football è uno dei grandi piaceri. I pomeriggi che ho passato a giocare a pallone sui Prati di Caprara (giocavo anche sei-sette ore di seguito, ininterrottamente: ala destra, allora, e i miei amici, qualche anno dopo, mi avrebbero chiamato lo “Stukas”: ricordo dolce bieco) sono stati indubbiamente i più belli della mia vita. Mi viene quasi un nodo alla gola, se ci penso. Allora, il Bologna era il Bologna più potente della sua storia: quello di Biavati e Sansone, di Reguzzoni e Andreolo (il re del campo), di Marchesi, di Fedullo e Pagotto. Non ho mai visto niente di più bello degli scambi tra Biavati e Sansone (Reguzzoni è stato un po’ ripreso da Pascutti). Che domeniche allo stadio Comunale!

Enzo Biagi intervista Pier Paolo Pasolini, «La Stampa», 4 gennaio 1973

lunedì 24 dicembre 2007

Natale a Futbolandia

Futbolandia augura Buon Natale a tutti quelli che negli imminenti e soporiferi pomeriggi festivi -tra capitoni, cin cin berlucchiani e torroncini- verranno ridestati dalla recondita inquietudine per la lunga pausa calcistica invernale, rintracciando nello zapping natalizio tra i canali 201/250 nient'altro che repliche di Energie Cottbus-Norimberga, di Udinese-Empoli o dell'ultimo derby meneghino (che Dio ci preservi da ogni male...).
Buon Natale a quelli che la domenica pomeriggio proprio non ne vogliono sapere di uscire se non per andare allo stadio (nè, tanto meno, la sera del dì di festa perchè c'è la DS) e a quelli che il sabato mattina si adoperano con zelo e dedizione per i preparativi della formazione Fantacalcio nonostante le già innumerevoli e immeritatissime sconfitte...
Buon Natale a chi crede che l'omaggio del Liverpool con tanto di fiocco-regalo sia già stato confezionato e spedito in via Durini 24 e che Santa Claus "a 'sto giro" abbia decisamente esagerato con la sambuca smarrendo il pacco -causa approssimativa sterzata di renne sulla rotta Rovaniemi-Milano- e ora vallo a ripescare; chissà che non arrivi entro metà febbraio....
Buon Natale a chi continua ad amare senza cognizione di causa il calcio, con o senza il beneplacito di mogli e fidanzate.
Buon Natale a chi si augura che la Juventus compri un regista perbene nel mercato di riparazione, a chi intercederà tra poche ore per il polpaccio sinistro di Ronaldo, perchè Dida non mangi il panettone (e in caso contrario, che almeno un'uvetta gli vada di traverso...) o perchè Pato possa realmente risolvere ogni futura traversia.
E Buon Natale naturalmente anche a tutti gli altri...

sabato 22 dicembre 2007

Scusa Ciotti ti interrompo...

Pensate com'erano diversi i tempi, quando qualcuno toglieva la linea a un altro, gli chiedeva «scusa». Oggi si parlano addosso in mille, senza capirsi e senza farsi capire. Erano i tempi eroici del calcio alla radio, di Tutto il calcio minuto per minuto. Era annunciato da un uccellino, in un elegante spot dello Stock 84. Ora siamo ridotti a quello di Del Piero. Scusa Ameri, scusa Ciotti, scusa Bortoluzzi e arrivano gli aggiornamenti: oggi dovremmo essere noi a scusarci con tutti loro, mai nessuno ha saputo sostituirli. Colossi in mezzo ai quali impallidivano gli altri: il «clamoroso al Cibali» nacque da un corrispondente di provincia che cercava la sua piccola parte di notorietà.
Il teatrino si spostò presto in tv, quando con Novantesimo minuto i gol entravano nelle case già a metà pomeriggio. Nacque un cabaret animato da personaggi entrati nella storia televisiva, dallo spaurito Carino al cattedratico Necco, dall'ansiogeno Giannini al cantilenante Gard, facevano ridere senza volerlo, rigorosamente in diretta. Oggi i loro eredi vanno in registrata, cercando di far sorridere, e fanno solo piangere. Li guidava tutti un signore garbato, Paolo Valenti. Quando si presentò all'ultimo appuntamento, smagrito ormai dalla malattia, capimmo che stava finendo un'era.
Cosa resta di quegli anni? La nostalgia di un calcio più ruspante e meno organizzato: se si perdevano un gol si scusavano dicendo che l'azione era stata così veloce da aver sorpreso anche il cameraman. Oggi di telecamere ce ne sono mille, sminuzzano tutto eppure non riescono a trasmetterci la poesia di quei tempi. Purtroppo ci resta anche una scomoda eredità, quella del primo cognome storpiato di un calciatore, quando Rancati si invento Causio con l'accento sulla u. I Mansini e i Sanetti sono nati da lì.

Vincenzo Cito, Sportweek, anno VIII, n. 49 (384), 22 dicembre 2007.

lunedì 17 dicembre 2007

Mondiale per Club 2007

Play-off
7 dicembre 2007, ore 19:45
Sepahan-Waitakere United 3-1 (Emad Mohammed 3', 4', Abdul-Wahab 47', Aghily 74' -aut.-)
National Stadium, Tokyo. Spettatori: 24.788
Arbitro: Marco Rodriguez

Quarti di finale
9 dicembre 2007, ore 14:45
Étoile Sportive du Sahel -Pachuca 1-0 (Narry 85')
National Stadium, Tokyo. Spettatori: 34.934
Arbitro: Mark Shield

10 dicembre 2007, ore 19:30
Sepahan - Urawa Red Diamonds 1-3 (Karimi 80', Nagai 32', Washington 54', Aghily 70' -aut.-)
Toyota Stadium, Toyota. Spettatori: 33.263
Arbitro: Coffi Codjia

Semifinali
12 dicembre 2007, ore 19:30
Étoile Sportive du Sahel-Boca Juniors 0-1 (Cardozo 37')
National Stadium, Tokyo. Spettatori: 37.255
Arbitro: Claus Bo Larsen

13 dicembre 2007, ore 19:30
Urawa Red Diamonds-Milan 0-1 (Seedorf 68')
International Stadium, Yokohama. Spettatori: 67.005
Arbitro: Jorge Larrionda

Finale terzo posto
16 dicembre 2007, ore 16:00
Étoile Sportive du Sahel-Urawa Red Diamonds 2-2/2-4 dts. (Frej 5', Chermiti 75', Washington 35', 70')
International Stadium, Yokohama. Spettatori: 53.363
Arbitro: Peter O'Leary

Finale
16 dicembre 2007, ore 19:30
Boca Juniors- Milan 2-4 (Inzaghi 21', Palacio 22', Nesta 50', Kakà 61', Inzaghi 71', Ledesma 85')
International Stadium, Yokohama. Spettatori: 68.263
Arbitro: Marco Rodriguez

domenica 16 dicembre 2007

Rivincita di Natale

16 dicembre 2007: il cerchio è chiuso.
Il Milan è la prima squadra europea a vincere il Mondiale per Club (vinto nelle precedenti due edizioni da San Paolo e Internacional de Puerto Alegre) -nuova formula del vecchio trofeo intercontinentale FIFA-
imponendosi di misura in semifinale sull'Urawa Red Diamonds, vincitrice del titolo nazionale giapponese e della coppa asiatica (con rete di Seedorf) e in finale con largo margine sul Boca Juniors (4-2, con reti di Inzaghi, Palacio, Nesta, Kakà, Inzaghi, Ledesma).
Il Boca di Russo è una buona squadra, nonostante l'incolore settimo posto in Apertura e l'eliminazione prematura dalla Copa Americana, con buone individualità (come Palacio, Neri Cardozo e soprattutto Ever Banega, oggetto del desiderio di molte europee nonostante il talento senz'altro indiscusso ma ancora del tutto plasmabile) e un discreto ordine tattico, ma quello del Virrey Carlos Bianchi, dominatore nel 2003 di campionato Clausura, Libertadores e carnefice proprio del Milan in finale Intercontinentale, onestamente era di tutt'altra levatura, potendo contare sulle prestazioni di Carlitos Tevez, Guillermo Barros Schelotto, Nicolas Burdisso e Pato Abbondanzieri. Hugo Ibarra e Sebastian Battaglia sono gli unici reduci di quella formazione, e nemmeno un Loco come Martin Palermo ha potuto molto di fronte al Governo Nesta-Kaladze.
Così il Milan chiude con il terzo trofeo stagionale (dopo Champions League e Supercoppa Europea) un anno di sfarzi e gratificanti rese dei conti -ieri con il Liverpool, oggi con gli xeneizes- impreziosito dalla definitiva consacrazione internazionale di Ricardo Izecson Dos Santos Leite (in arte Kakà) splendido e più compiuto esemplare di calcio moderno, perfetta e superomistica sintesi di tecnica, abilità e vigore fisico, ultimo vincitore del Pallone d'oro e, tra poche ore, del FIFA World Player, secondo le indiscrezioni davanti a Leonel Messi e Cristiano Ronaldo.
Inutile considerare che chiudere la stagione con una vittoria nel derby di Natale contro un'Inter in stato di grazia sarebbe splendido, dal momento che Milano è caput mundi del calcio europeo come forse mai le era accaduto sino ad ora (causa lunghe latitanze interiste, risalenti all'incirca all'età mesozoica).
Ma forse è meglio non esorbitare: ubi maior minus cessat.

mercoledì 12 dicembre 2007

A United Decade

Manchester United: 1960/69
After building one of the greatest teams seen in England, Matt Busby had to start all over again at the start of the 1960's. The Munich air disaster had robbed him, and football, of some of the era's greatest players. But once the great manager had recovered from his own injuries, he set about building another side to take the world by storm.
Dennis Viollet was one of the leading names within this team. In 1959/60, the Munich survivor broke Jack Rowley's club record by scoring 32 goals in one league season. The team in total scored 102, but they conceded 80 and finished in seventh place.
Viollet wasn't the Munich survivor to enjoy a great Old Trafford career; others included Bill Foulkes, and Bobby Charlton, who came through the club's youth ranks to break goalscoring records for club and country. Nobby Stiles also rose through the ranks, while Denis Law came via a record £115,000 transfer from Torino.
United's form was erratic at the start of the decade, while new names settled in, but then everything came together with a run to Wembley for the 1962/63 FA Cup Final. Busby's new-look team beat Leicester 3-1, with two goals from David Herd and one by Law.
The next season saw United build on the foundations of FA Cup success to challenge for the title – finishing second, only four points behind the champions Liverpool, to whom they lost both at home and away. The 1962/63 season was also notable for the signing and debut of George Best, the young man from Belfast who would become football's first superstar. His incredible skill, pace and control left opponents in knots, making him a hit with the fans, while his filmstar looks made him a hit with the ladies.
In 1964/65, the famous trio of Best, Law and Charlton took United to new heights. They won the League Championship, pipping Leeds on goal difference, and reached the semi-finals of the European Fairs Cup and the FA Cup. Law plundered goals galore and was named the European Footballer of the Year.
The title-winning team seemed to be the finished article, but they finished a disappinting fourth the following season, and exited both the FA and European Cups in the semi-finals. The season's highlight had been the 5-1 away thrashing of Benfica in the European Cup quarter-finals, when Best had been in blistering form.
In 1966/67 United were crowned League Champions again and another season of European Cup Football was guaranteed. This time, United would go all the way, beating Benfica in the final at Wembley. Jaime Graca equalised Charlton's headed goal to take the game into extra-time, but further goals from Best, Brian Kidd and Charlton gave United their first European Cup. Just 10 years after Sir Matt had seen his dream team destroyed, he had performed the impossible. He was knighted soon afterwards.
The following season saw the European Champions finish eleventh in the league and fail to win a trophy. They also lost the World Club Championship 2-1 on aggregate to Estudiantes. Despite the anti-climatic end to the decade, United fans could feel delighted with the 1960's. Few could begrudge Sir Matt Busby's retirement in 1969, after all he'd achieved.

http://www.manutd.com/

domenica 9 dicembre 2007

L'ultimo verdetto

Con una piccola variazione sul tema, omaggio la boxe -passione di retaggio paterno- che la scorsa notte ha scritto una pagina importante della sua storia con l'incontro Mayweather-Hatton per il titolo superwelter, in appendice all'evento di sette mesi fa quando Mayweather ha ottenuto il sesto titolo pound for pound battendo Oscar De La Hoya.

La scorsa notte all'MGM di Las Vegas Nevada Floyd Mayweather Jr. -pugile trentenne di Grand Rapids- ha conservato il titolo mondiale WBC dei pesi superwelter battendo per ko tecnico alla decima ripresa lo sfidante britannico Ricky Hatton, alla prima sconfitta della carriera.
L'inglese di Manchester attacca fin dalla prima ripresa con una serie di buone combinazioni, ma i suoi colpi si infrangono sui guantoni dell'avversario o sfilano indolori ai lati del viso di Floyd, che al contrario va a segno nella terza usando il sinistro come tempestiva arma di anticipo e aprendo Hatton sopra l'occhio sinistro, poi alla quarta con due montanti destri. Mayweather è «troppo esperto, scaltro e di classe eccelsa per lasciarsi condizionare dal caos che gli scoppia intorno» (Massimo Lopes Pegna). Floyd "tira il fiato" nella quinta ripresa e nella sesta Hatton riceve una penalizzazione per un colpo dietro la nuca dell'avversario. Fine dei giochi: la seconda parte dell'incontro è un monologo di Mayweather con il consueto versatile repertorio, sintesi perfetta di disarmante agilità ed elegante potenza. Alla nona devastante uppercut di Mayweather e alla decima epilogo del Floyd Show con un chirurgico gancio sinistro che costringe Hatton sul sostegno del ring poi al tappeto e l'arbitro dopo il conteggio all'interruzione della sfida (Hatton si rialza all'ottavo secondo ma in avanzato stato confusionale), con lo statunitense già avanti 89-81 per i primi due giudici, 88-82 per il terzo.
Cala verosimilmente qui il sipario della fantastica carriera da imbattuto di Floyd Mayweather Jr. (39 vittorie in altrettanti incontri con 25 soluzioni prima del limite, a 49 c'è solo l'inarrivabile Marciano), il miglior pugile pound for pound di questa generazione, iridato in cinque diverse categorie (superpiuma, leggeri, superleggeri, welter e superwelter). Per Hatton invece prima sconfitta in carriera dopo 43 successi e la resa dei meriti all'avversario dopo le consuete -e a dire il vero, reciproche- bizze verbali della lunga vigilia e i musi duri in occasione della cerimonia del peso. Se Mayweather ridimensionerà le intenzioni di ritiro, l'attualità suggerisce il nome del portoricano Miguel Cotto -anch'egli ancora imbattuto- come prossimo pretendente alla cintura di un titolo da sempre di spettanza sudamericana.
Floyd Mayweather aveva conquistato la cintura superwelter lo scorso 6 maggio contro Oscar De La Hoya, vincendo per Split Decision dopo un incontro equilibrato ma con el Chico de Oro costretto a snaturare la sua boxe d'incontro per via della superiore stazza fisica, tenendo sempre ma senza efficacia il centro del ring. Ma la tattica elusiva e la maggiore pulizia dei colpi sancirono il verdetto dei cartellini dei giudici a favore di Mayweather.
L'ultimo responso spetta, quasi per intercessione divina, al maestro Rino Tommasi: «malgrado alcune riserve di ordine stilistico, nella sostanza il verdetto finale premia un grande campione e le sue qualità essenziali di qualità e precisione che fanno della boxe un'arte, non sempre nobile ma spesso sincera».

sabato 8 dicembre 2007

Il Sol Levante ha l'Oro in bocca

Quattro giocatori sino ad ora hanno vinto nello stesso anno e in ordine sincronico la Coppa dei Campioni, il Pallone d'Oro e la Coppa Intercontinentale: si tratta di Gianni Rivera nel 1969 con il Milan, Franz Beckenbauer nel 1976 con il Bayern Monaco, Michel Platini nel 1985 con la Juventus (oltre alla classifica marcatori di serie A con 24 centri) e Marco Van Basten nel 1989 con il Milan (oltre alla Supercoppa Europea). Ronaldo nel 2002 non vinse la Coppa dei Campioni (perchè ceduto in estate dall'Inter al Real Madrid), ma nell'anno solare si aggiudicò il Mondiale di Corea e Giappone (con classifica marcatori e titolo di miglior giocatore del torneo annessi), bissò il Pallone d'Oro del 1999 e vinse con i blancos la Coppa Intercontinentale.
Che Kakà possa hic et nunc chiudere il cerchio aperto da un altro Golden Boy in medesima uniforme.

mercoledì 5 dicembre 2007

Apologia di Ronaldo

A Futbolandia -ormai si sa- il tempo si è fermato, e Ronaldo continua a essere un dio, un dio minore tra quelli che si rendono necessari per supplire alla morte, alla fuga o al silenzio delle divinità vere.
Con perplessità il mese scorso ho preparato l'ultima consultazione sul calciatore più forte di Futbolandia, e con altrettanta esitazione ho inserito nell'elenco dei candidati Ronaldo, ancora depositario di una distinta fascinazione mediatica ma ormai distante dai suoi fasti calcistici. Ebbene, l'inatteso esito del sondaggio ha indicato Ronaldo preferito al novo firmamento calcistico con più della metà delle preferenze e con Kakà, Ibrahimovic, Messi e Cristiano R. a spartirsi sotto la tavola del triclinio conviviale le briciole da elargire poi alla follia collettiva della piazza del pallone.
Io non so ancora se davvero Ronaldo sia il miglior calciatore del mondo o se invece stiamo tutti immaginando che lo sia come ultimo frutto della nostra postmodernità. Dove il tempo si è fermato e l'aurea sembianza di Ronie si prende gioco degli inermi avversari in maglia blaugrana.

In suo omaggio, vi raccomando la lettura di questo articolo di Manuel Vàsquez Montalbàn pubblicato su La Repubblica del 27 aprile 1997:
Dio e Roger Vadim crearono Brigitte Bardot servendosi soltanto di fango femminile. Ora la Fifa ha creato il mito calcistico di fine millennio, Ronaldo, il calciatore chiamato a perpetuare la speranza laica di ogni settimana.
L'orgasmo del calcio, Poesia in movimento, Il gol totale, un calciatore venuto da Marte, Il gol galattico, extraterrestre, Il gol orgasmico, cibernetico, Il gol di un altro pianeta, megagol. Non è ancora finita la lista di epiteti panegirici dedicati al nuovo idolo del mercato calcistico spagnolo e mondiale, Ronaldo Nazario, ventenne già considerato come il miglior calciatore del 1996.
Realtà o desiderio? La sempre più complessa e arricchita industria del calcio ha bisogno di punti di riferimento mitologici che la aiutino a crescere e a consolidarsi. Di Stefano, Pelé, Cruyff, Maradona, hanno riempito quattro decenni e sono ormai leggende, ma ogni industria ha bisogno di rinnovare i propri dèi. La Fifa ha scelto Ronaldo come il dio minore erede di Maradona, capace di officiare nella religione del calcio senza ricorrere alla cocaina. Sul poderoso e agile corpo di un centravanti che sembra elaborato dall'ingegneria genetica, grava il peso di una delle scarse possibilità di Assoluto che ci siano rimaste e se non gli spappolano le gambe o il cervello, abbiamo un dio per i prossimi dieci anni.
Ronaldo gode di condizioni fisiche inusuali che che gli consentono l'aplomb di un corpo ben fornito, difficile da ostacolare e abbattere e un'agilità da ballerino di tip-tap, virtú fisiche unite a quella tecnica che i bambini brasiliani acquistano con innata spontaneità. Un valore aggiunto al suo splendore calcistico è quel che è costato: 2.500 milioni di pesetas (circa 30 miliardi di lire) pagati dal Barcellona per un giocatore promettente, che nel calcio olandese non aveva dato di sé quanto ci si aspettava. E in questi momenti il F.C. Barcelona sta studiando la possibilità di alzare la clausola di riscatto a 15.000 milioni di pesetas (180 miliardi). Ronaldo è talmente sopravvalutato che l'angoscia si è fatta di pietra nel cuore dei dirigenti del Barcellona, i quali temono che gli affari propiziati dall'immagine del calciatore, attirando l'attenzione di altre squadre, provochino la corsa al rialzo, e che il passaggio di Ronaldo per Barcellona diventi un fugace transito di autopromozione.
A tal punto preoccupa una simile capacità di fuga dell'idolo, che si è creato un dispositivo tattico per risolvere i problemi di adattamento di un ragazzo di vent'anni. Come stabilizzare il suo mondo emozionale a Barcellona, a tanti chilometri dalla sua famiglia, dalle sue fidanzate, dal samba? È stato scritto che per un calciatore il miglior fattore di stabilizzazione sono la madre o la sorella, e si è fatto quindi tutto il possibile per trasferire la madre di Ronaldo a Barcellona. E altrettanto si è fatto con la sua fidanzata Susana, popolarmente conosciuta come Ronaldinha, una bella bionda calciatrice che per il momento assolve in questo mondo la funzione di placare le nostalgie segrete del gladiatore in esilio.
L'instabilità emozionale attribuita ai calciatori brasiliani ha una sua delicata casistica. A Donato e a Baltazar venne il ghiribizzo della mistica e resero buoni servizi all'ombra protettrice della religione. Bebeto genera bambini brasiliani a ogni piè sospinto, Romario vive in continuo andirivieni, evidenziando così che esiste anche il brasiliano errante. Si teme che Ronaldo non incontri né la religione ne la Ronaldinha né la clausola di riscatto in grado di ancorarlo per davvero a Barcellona, a Roma o in alcun altro posto, perché Ronaldo non apparterrà mai strettamente a una squadra, ma alla promotion multinazionale, capace di pagare il prezzo dell 'eterna sostanza dei miti. Potremmo addirittura dubitare dell'esistenza di Ronaldo e arrivare alla conclusione che si tratti di un giocatore virtuale creato dalla Fifa per farci restare fedeli a una di quelle religioni minori che compensano la morte di Dio, dell'Uomo, di Marx e di Marilyn Monroe.


Nostalgico anacronismo dite? Non in questa sede...

domenica 2 dicembre 2007

L'inverno con la mia generazione

Ricordate la storia della vostra sciarpa da stadio?
La mia è "nata" l'11 dicembre 1999 a San Siro, tredicesima giornata di campionato, anticipo del sabato, ore 18.00. Il Milan di Alberto Zaccheroni (Abbiati, Maldini, Costacurta, Sala, Guglielminpietro, Albertini, Serginho, Ambrosini, Boban, Shevchenko, Bierhoff) affronta il Torino. La notte precedente fui ospite del marchese De Sade in via Valtellina ...baby just come to me/don't brake my heart tonight/swinging my soul desire/baby just come to me/be what you wanna be/using your fantasy... e quel sabato mi recai allo stadio per la prima volta con Felice, dopo la mattinata scolastica con tema in classe mensile: nel tragitto pedestre Lotto/curva Sud ci confrontammo sulle reali potenzialità di una squadra piuttosto appannata (come del resto da routine mia e di Andre sul nove tra Lamarmora e Porta Genova, quando non ci si dedicava al laborioso cicaleggio della splendida... ma come si chiamava? Mah...) sebbene campione d'Italia uscente. Milano sotto zero già alle cinque del pomeriggio, e fu così che in Fossa (e poi andammo come sempre in Brigate, e per difenderci dal freddo... ma questa è un'altra storia...) decisi di acquistare una sciarpa (in allegato, il programma F.d.L. con il diario delle ultime trasferte e il mini-poster di una bellissima coreografia "suina" di uno sfortunato derby -segnò Berti- di qualche anno addietro) pagandola diecimila lire. Il Milan superò il Toro 2-0 con rete di Bierhoff al terzo minuto di gioco e raddoppio di Sheva su rigore al minuto '75. Nel Toro lo sfortunato ex Gianluigi Lentini subentrò al minuto '62 a Francesco Coco, dall'anno successivo esplosivo terzino sinistro in corsia rossonera e idolo incontrastato del giovane Quarù.
Il Milan quell'anno chiuse terzo (l'Inter quarta a tre punti) alle spalle di Lazio e Juventus, il Torino -quartultimo- retrocedette.
Quell'anno partecipai alla prima stagione della "nostra" Lega Fantacalcio con la Matador Nine Group, generosa compagine nonostante il modulo a una sola punta (dovrei rivendicare forse la paternità calcistica dell'albero di Natale?) 'fantacalcisticamente' poco proficuo. Il giorno dell'asta da Gianni infatti, dopo aver pagato uno sproposito Marcelo Salas, quell'anno campione d'Italia con la Lazio, fui costretto per improrogabile incombenza (a diciott'anni le così designate non si contano, la mia quel giorno si chiamava Sissy P.) ad abbandonare il tavolo delle trattative, rientrando a centravanti titolati ormai battuti. Un longilineo portiere gallico di diciott'anni dai capelli color ghiaccio e in forza al Verona nel suo primo anno "italiano" difese la porta della Matador 9 per l'intera stagione (da allora milita nell'Estudiantes, nata dalle ceneri della M9G, pesa circa trenta chili in più ma è sempre fortissimo). La squadra disputò un campionato dignitoso, centrando un terzo posto alle spalle della Real Felix (squadra di antichi fasti ma di nobiltà ormai decaduta e sconfitta nel primo confronto di quell'anno con un antologico 6-5) e della Longobarda di Marco.
Ma torniamo alla sciarpa, perchè da quel giorno non me ne sono più separato, e quella di Felice -molto simile alla mia ma con campo grigio anzichè rosso- finì nientemeno trionfalmente esposta nella foto di classe di quell'anno, seconda liceo classico.
Quella sciarpa ha assistito a Manchester alla mia più grande gioia sportiva (ultimo Mondiale escluso) anche se in quell'occasione, causa errore di percorso, dovetti tenerla legata sotto la maglietta double dell'Inghilterra, perchè i gulliveriani Drughi miei vicini di posto -brave persone sì, ma con una poco istruita vena umoristica- forse non avrebbero altrimenti apprezzato. Quella sciarpa nel 2005 ha testimoniato il primo tempo più bello della storia del calcio, salvo poi curarsi delle lacrime versate a poco più di un'ora di distanza nell'infausta satrapia di Ataturk.
Con quella sciarpa ho mangiato il miglior kebab della mia vita dirimpetto allo stade De Gerland di Lione e, causa medesima, ho buone ragioni per credere di aver rischiato la pelle a Marassi in data 31 ottobre 2004 (Sampdoria-Milan 0-1, per coincidenza ancora Sheva -uno che tutto sommato non era solito marcare così spesso!- ma a volte le circostanze...) perchè è ragionevole pensare che i pingui improperi di un pittoresco blucerchiato fossero riservati con così mite indulgenza proprio a me (e a Felice ovviamente). Ma la pelle l'ho rischiata anche a Milano quando in viale Bligny, a seguito di un beffardo derby clarenziano, un mesto tifoso nerazzurro non mi sembrò aver particolarmente gradito un mio docile e spassionato sorriso di commiserazione -noblesse oblige- ma poi, si sa come si risolvono queste questioni, è finita a birra, da lui pagata, e sigarette da me profusamente elargite che nemmeno durante il Risiko...
Un giorno (8 marzo 2005, Champions League, Milan-Manchester United 1-0) in Axum, un ardimentoso red devil mi propose, come da assodata consuetudine del tifo anglosassone, lo scambio della mia sciarpa con la sua (un'incantevole tubolare rossa con l'illustre sigla UTD in cubitali bianchi) ma io, con storico rifiuto, ho cordialmente declinato l'invito (causa difficoltosa padronanza dell'idioma inglese, non sono certo di quale effetto possa aver sortito la mia macaronica risposta) ripensando poi molto a lungo a quell'istante, con il vanto disingannato che vuole essere dei compagni di lungo corso per non aver mai tradito la consorte nonostante le incidentali e seducenti malie trascorse.
È scontato poi che io avessi la sciarpa -e ne sarebbero occorse altre sei- quando il 25 gennaio scorso (Coppa Italia, Milan-Roma 2-2) una fiabesca nevicata sotto i riflettori del Meazza restituì -dopo un caffè come si deve- un senso alla serata serata mia e di Andrea, Felice, Lorenzo e Cine, tutti degenti dopo quella bella trovata.
Ci sarebbero moltissimi altri ricordi legati a questa sciarpa e forse altri verranno, perchè credo che la indosserò ogniqualvolta allo stadio per qualche tempo ancora, almeno finché Maldini (insieme all'Ambroeus, unico reduce della formazione di quel Milan-Torino) non farà domanda di congedo dalla carica di capitano, dileguandosi dopo un saluto sommesso o tra gli sfarzi primaverili della Prospettiva Nevskij... ma no, anche questa in fondo è tutta un'altra storia...

sabato 1 dicembre 2007

Just flick to kick!

Andrea Piccaluga ha 43 anni e insegna Management alla Scuola superiore di studi economici Sant'Anna di Pisa. Ma ancora oggi, durante le riunioni di lavoro, qualche imprenditore o un insospettabile docente universitario gli chiede se fosse proprio lui quel ragazzino che nel 1978 era diventato celebre giocando a Subbuteo. «Avevo vinto la coppa del Mondo e in quel momento quel gioco era una follia collettiva» ricorda il professore. «Fui invitato per un mese in Inghilterra, dove il Subbuteo era stato inventato: ogni giorno mi portavano in un negozio di giocattoli o in un supermercato, e sfidavo qualsiasi bambino». Con un colpo di genio, il direttore marketing della Subbuteo, Jim Leng, aveva fatto assicurare il dito con cui quel quattordicenne genovese "calciava" gli omini di plastica, per una somma incredibilmente alta, diventata materia di leggende. Lo racconta Daniel Tatarsky (e Piccaluga lo conferma qui: «erano 150 milioni di lire, ma se io mi fossi infortunato, sarebbero stati loro a incassare il premio...») in un libro che, ripercorrendo la storia del Subbuteo dalla prima intuizione dell'ornitologo Peter Adolph all'ultimo tentativo dell'italiano Edilio Parodi di tenerlo in vita anche contro i videogiochi, è un monumento illustrato alla nostalgia. Nostalgia per un gioco semplice con il quale sono cresciute intere generazioni, e per un tempo in cui l'elettronica era ancora materia da fantascienza. Attorno a quel grande panno verde, steso su un tappeto per terra o stirato sopra il tavolo del tinello (quelli bravi nel fai-da-te lo incollavano su un foglio di compensato), si covavano nuove amicizie oppure si rompevano sul numero dei tocchi consentiti; si scambiavano opinioni su: come dare colpi a effetto; scatole di squadre dai colori esotici o ancora da dipingere; colle a presa rapida per rimettere in piedi giocatori azzoppati o decapitati da cadute rovinose. Scrive Tatarsky, un attore inglese dal curriculum bizzarro che è stato anche speaker della finale di calcio all'Olimpiade di Atene: «Alcuni ragazzi avevano i poster di Debbie Harry, altri di Freddie Mercury, ma il tabellone con le 190 squadre del Subbuteo superava tutti i confini sociali, culturali e geografici».

recensione di Carlo Annese (pubblicata su Sportweek, anno VIII, n. 46 -381-, 1 dicembre 2007) del volume: D. Tatarsky, Subbuteo. Storia illustrata della nostalgia, Isbn Edizioni, Milano 2007.

LA PARTITA RECORD
Il record mondiale di durata a Subbuteo appartiene a due ragazzi inglesi: Paul Chambers e Tim Peters. Nel dicembre 1986 giocarono ininterrottamente per 62 ore e sette minuti. Si sfidarono in 160 partite consecutive: lo Hull City di Tim segnò 83 gol; il Liverpool di Paul "soltanto" 60.

venerdì 30 novembre 2007

In incipit

Il 30 novembre 1983 Roberto Baggio, straordinario esemplare calcistico, segna la sua prima rete ufficiale da professionista a tre minuti dallo scadere dei tempi supplementari nel ritorno dei sedicesimi di finale di Coppa Italia serie C in Legnano-Vicenza. La gara termina 4-1 per il Vicenza. Baggio ha realizzato in carriera 318 reti ufficiali: 205 in serie A (il quinto marcatore di sempre), 36 in Coppa Italia, 27 in Nazionale (56 presenze e tre Mondiali disputati), 17 in Coppa Uefa, 13 in serie C1, 9 in Coppa delle Coppe, 5 in Coppa dei Campioni, 2 nello spareggio Champions League, 1 in Coppa Italia di serie C, 1 nella Supercoppa italiana, 1 nello speraggio Coppa Uefa e 1 in Intertoto.
Il Divin Codino ha vinto due titoli nazionali italiani (Juventus 1995, Milan 1996), una Coppa Italia (1995) e una Coppa Uefa (1992), oltre al Pallone d'oro nel 1993.

martedì 27 novembre 2007

C'era una volta un re

Il 27 novembre 1994, trasformando all'Artemio Franchi un calcio di rigore al 15' della ripresa contro la Sampdoria, Gabriel Omar Batistuta va in rete con la maglia della Fiorentina per l'undicesima giornata consecutiva di serie A: è record per il campionato italiano. Batistuta, nella stagione 1994/95, aveva già segnato a Firenze contro Cagliari (prima giornata), Cremonese (due reti), Lazio, Padova e Bari; in trsferta contro Genoa, Inter, Reggiana (due reti), Brescia e Napoli (due reti). La striscia del Bati s'interrompe il 4 dicembre al Delle Alpi di Torino, dove la Fiorentina viene sconfitta dalla Juventus per 3-2 dopo essere stata in vantaggio di due reti. È Alessandro Del Piero, con un gol capolavoro, a firmare la vittoria in rimonta della Signora. Al termine della stagione le reti saranno 26.
Per Batistuta nove anni (dal 1991 al 2000) in maglia viola (173 reti in 270 presenze) una Coppa Italia (1995/96) e una Supercoppa Italiana (1996). A Roma, sponda giallorossa, 63 presenze in due anni (2000/02), 30 gol, un titolo nazionale (2000/2001) e una Supercoppa Italiana (2001). Una sola stagione all'Inter (2002/03, 12/2).
In Argentina, tra il 1988 e il 1991, ha vestito le maglie di Newell's Old Boys, River Plate (titolo nazionale di clausura nel '90) e Boca Juniors (complessivamente 20 reti in 65 presenze).
Ha concluso la sua carriera calcistica nel 2005 in Qatar, segnando 25 reti in 28 presenze con l'Al-Arabi di Doha.
Con l'Albiceleste 78 presenze e 56 reti (miglior marcatore di sempre) due Copas America (1991 e '93) e una Confederations Cup nel 1992.
Il 26 novembre 2000 ha segnato in maglia romanista la rete della vittoria sulla Fiorentina al Franchi. La sua delicata commozione subito dopo la rete realizzata ricordò le lacrime di Roberto Baggio, che alla prima a Firenze nelle file della Juve si rifiutò di battere un calcio di rigore, poi fallito da Antonio Conte, o quelle di Manuel Rui Costa -O Maestro- che nel dicembre 2001 (pochi mesi dopo il suo sofferto addio a Firenze) in occasione di Fiorentina-Milan si commosse davanti al suo vecchio armadietto del Franchi, in visita allo spogliatoio avversario pochi minuti prima dell'incontro.

sabato 24 novembre 2007

Azzurro tenebra

Possiamo definirla senza mezzi termini la "riscoperta dei classici" della letteratura sportiva. La prossima settimana uscirà, per i Tipi della Graphot, la riedizione dell'introvabile Azzurro tenebra di Giovanni Arpino, giornalista-scrittore scomparso nel 1987. Uscito esattamente trent'anni fa, il libro parla della disastrosa avventura azzurra al Mondiale 1974. Molto atteso dai cultori del genere, è considerato una pietra miliare della narrativa sportiva poichè per la prima voltà elevò il calcio a tema e sfondo di un'opera di alto livello letterario.
Oltre al romanzo di Arpino, la "riscoperta" passa soprattutto attraverso la recente riedizione di tre libri di Gianni Brera: per Baldini e Castoldi Dalai sono usciti Derby! e La Ballata del pugile suonato. Per Rizzoli, invece, Il più bel gioco del mondo. Scritti di calcio 1949-1982. Dedicata a Brera, ma stavolta dei giorni nostri, è l'autobiografia Un lombardo nel pallone (ExCogita), già portata in scena a teatro da Piero Mazzarella.

Andrea Parodi, Sportweek, anno VIII, n. 45 (380), 24 novembre 2007.

mercoledì 21 novembre 2007

Galeotta fu la figurina

...e chi vi era rappresentato

di Andrea Garnero
Correva la stagione 1989/90 e a quei tempi credo che frequentassi la seconda elementare. Era il tempo dei primi calci al pallone nei corridoi o fra i banchi di scuola, le prime partitelle al parco sotto casa con quelli che sarebbero poi diventati i tuoi amici, il tempo in cui cominciavi a sentire che nella tua vita era giunto il momento di costruire qualcosa d’importante per il tuo futuro, appassionarti a qualcosa, amare una squadra di calcio.
Correva la stagione 1989/90 e mio padre, fiero interista, cominciava a parlarmi della sua squadra. Con la scusa della mia giovane età e della mia “ignoranza” calcistica, si faceva consegnare dalla ditta presso cui lavorava biglietti gratis (un tempo si poteva ancora, ora non più perché ci sono i “mitici” tornelli) per le partite dell’Inter. Esistono foto in casa mia, incollate su più album, in cui sono ritratto brandendo la bandiera dell’Inter con indosso cappello e sciarpa nerazzurra. Mi piaceva San Siro, era enorme per me, gigantesco, mi faceva più paura da dentro che da fuori.
Correva la stagione 1989/90 e un giorno a scuola, sfogliando diversi album delle figurine Panini dei miei compagni di classe (quelli veri in cui non esistevano pagine dedicate al mercato di gennaio e la foto ufficiale della squadra era divisa in due parti e bisognava prestare massima attenzione quando univi i due pezzi, per non rovinare la tua squadra del cuore, ma non solo), tra un celo e un noncelo scambiai, con il mio amico Cine, un giovanissimo Filippo Galli con un altrettanto imberbe Diego Fuser. Tale Fuser era l’ultima figurina che mi permetteva di completare le due pagine di una squadra che fino a quel momento avevo solo sentito nominare a scuola ma mai in casa: il Milan. Perlopiù eravamo in quattro a parlare di calcio: due milanisti, un napoletano e il sottoscritto. Loro parlavano, parlavano, parlavano, delle gesta dei loro eroi.
Correva la stagione 1989/90 e a quei tempi credo che frequentassi la seconda elementare. Si dice che quando una persona sia in procinto di morire, tutta la vita le scorre davanti agli occhi: sicuramente questo momento che sto per descrivere mi sfilerà davanti. Faceva freddo quel giorno, ero compagno di banco di un milanista, dietro di me erano seduti il secondo milanista (Cine) e il napoletano. A un tratto Cine mi chiese se fossi sicuro di voler dedicare la mia vita intera all’Inter (non con queste parole perché eravamo in seconda elementare, il concetto però era quello) e io rispondendo dissi: voglio tifare a vita per una squadra vincente. Allora estrasse dal suo astuccio dei Masters due penne Bic, una rossa e una nera, e dalla cartella (non dallo zaino, dalla cartella) tirò fuori invece il “pacco” delle figurine doppie. Tolse l’elastico, le sfogliò velocemente e prese due figurine: una di Marco Van Basten, l’altra di Diego Fuser. A questo punto, come si conveniva ai tempi dei sani e vecchi princìpi cavallereschi, mi benedisse toccandomi sia sulle spalle che in fronte con le due penne, mi costrinse a baciare entrambe le figurine mentre pronunciava: «Io ti battezzo nel nome di Marco, Ruud e Frankie. Da ora in poi, sarai sempre tifoso del Milan». Al termine della “funzione”, Cine mi volle regalare una figurina, “purtroppo” mi diede quella di Fuser. La cosa mi piacque ma non mi resi completamente conto di quello che io e il mio amico avevamo appena compiuto. Certo è che quando la sera mio padre tornò a casa, dopo avergli spiegato l’accaduto, mi deve aver detto parole simili: «Da oggi in avanti io e te, calcisticamente parlando non siamo più parenti», perché ogni tanto questa frase la ricorda sempre.
Non so se ho fatto bene a seguire il mio amico, invece della fede di mio padre. Certo è che calcisticamente parlando per noi milanisti questi sono stati i migliori anni della nostra vita.
Ripenso spesso a quel momento. A volte ne parlo con Cine stesso seduti a un tavolo davanti a una birra oppure in piedi fumando una sigaretta fuori dal Murphy’s e ridiamo, ridiamo, ridiamo…
I tre olandesi con i quali sono stato battezzato non li ho mai visti giocare dal vivo, perché da quel giorno mio padre non mi ha più portato allo stadio. Delle loro imprese ho appreso in questi anni grazie alla televisione e alle vhs. Per capire cosa volesse significare Mediolanum, ai tempi sponsor ufficiale dei Ragazzi, ho dovuto aspettare la IV Ginnasio, per capire dove si trovasse l’Olanda geograficamente parlando, la III elementare. Per capire quale sia la differenza tra Campionato Europeo e Campionato Mondiale, forse sto impiegando tutta la vita.
Un giorno, magari proprio Cine, l’artefice della mia fede, mi spiegherà tutto questo e la nostra passione. Per il momento, nei momenti amarcord apro uno dei tanti cassetti della mia camera e mi commuovo davanti alla figurina di Diego Fuser.

martedì 20 novembre 2007

Estrella Celeste

Il 20 novembre 1901 nasce a Montevideo Josè Leandro Andrade, il calciatore uruguaiano più celebre e la prima stella internazionale della storia del calcio.
Andrade, primattore della Celeste nella prima metà del secolo scorso (31 presenze), ha vinto il primo titolo mondiale (1930), tre Coppe America (1923, 1924, 1926) e gli ori olimpici di Parigi 1924 e Amsterdam 1928.
In Uruguay Andrade ha indossato le maglie di Bellavista (1923/25), Nacional Montevideo (1925/30), Penarol (1930/32, un titolo nazionale) e Montevideo Wanderers (1932/1933). Nel 1932 ha anche disputato un campionato di clausura in Argentina con l'Atlanta di Buenos Aires.
Calciatore dalla perfetta lettura di gioco in fase sia di contenimento che d'impostazione, Andrade è considerato il primo grande regista difensivo della storia del calcio capace di imporsi grazie alla sua cifra tecnica di eleganza ai tempi inarrivabile ma anche per una prestanza atletica al di sopra delle parti. Mediano atipico, la Maravilla Nigra colpiva spesso i palloni in movimento e di 'mezza altezza' (altrimenti difficilmente controllabili) facendo perno sul terreno di gioco con un braccio: un unicum nella storia del calcio mondiale.
Andrade è morto a Montevideo il 5 ottobre 1957.
Secondo voci dal riscontro non del tutto attendibile, Andrade avrebbe subito da adolescente diverse vicissitudini a sfondo razziale (unico calciatore di colore del suo tempo) che ne tardarono l'ascesa calcistica; rimasto gravemente leso all'occhio sinistro durante la semifinale olimpica di Amsterdam nel 1928 contro l'Italia, le sue condizioni di vista sarebbero peggiorate fino alla pressochè completa cecità; sarebbe morto dimenticato, alcolizzato e in miseria. Secondo autoimposta istanza di non intromissione, io preferisco figurarlo mentre educa con grazia e dedizione un pesante pallone di cuoio scuro. Siempre en el vestir con celeste camisa.

lunedì 19 novembre 2007

Dell'Italia e di altre storie

Istantanee di un finesettimana calcistico da ricordare: magno gaudio per l'Italia, qualificata agli Europei della prossima estate senza l'impellente necessità di infierire sulle simpatetiche isole Far Oer mercoledì al Braglia di Modena. Rete propiziatoria di Toni al primo minuto di gioco ma niente vallo adrianeo perchè, consci dell'inesausto furore scozzese, gli azzurri si cimentano con dedizione in una convinta e insistente ricerca della seconda -più volte sfiorata- segnatura. Ma Ferguson pareggia in mischia e i gloriosi spiriti druidi e gaelici calano gelidi dalle Highlands sull'angustiata stirpe italica, sotto forma di fremiti catodici. Ma Marte è propizio, e con una rete a tempo scaduto di Panucci del tutto contestabile ma non per questo immeritata, Italia victrix per la prima volta nella sua storia calcistica ad Hampden Park.
Israele ha sconfitto la Russia 2-1 al Ramat Gan di Tel Aviv. Alla rete iniziale di Barak Itzhaki, risponde Bilyaletdinov al 60'. Nell'ultima mezzora accerchiamento russo alla porta di Awat: Il nemico è alle porte, ma all’ultimo minuto regolamentare Dmitri Sychev fallisce il match-ball centrando il palo esterno della porta israeliana, ribaltamento di fronte e Golan, da poco entrato nelle file israeliane, si libera in area avversaria e supera Gabulov. Così all'Inghilterra mercoledì occorrerà un solo punto contro la Croazia già qualificata (e sconfitta sabato dalla Macedonia 2-0 a Skopje, con due reti di Goran Maznov): grazie agli israeliani per aver raccolto il nostro preoccupato monito, stillato dall'infelice congettura di un Europeo di calcio senza gli stimatissimi inglesi (Steve McClaren dichiara in conferenza stampa: «I couldn't watch the last 10 minutes. I had actually slipped to the bathroom. My sons had a big cheer when Israel scored and I thought it was actually the end of the game». Che meraviglia!).
L'Irlanda del Nord vince a Windsor Park di Belfast, eliminando la Danimarca dalla corsa qualificazione. David Healy segna la rete del 2-1 finale, 13esima personale in queste qualificazioni: è primato.
A Spagna e Svezia basterebbe un pareggio di non belligeranza ma il Santiago Bernabeu è gremito e così niente patta: l'ammirevole roja incanta e vince 3-0 con reti di Capdevilla, Iniesta e Ramos.
L'impresa del giorno è della Turchia nell'inedita versione frangiflutti all'Ulleval di Oslo. Norvegia avanti con acrobazia di Hagen, Emre Belozoglu pareggia al 31' e Nihat (giocatore delizioso, massimo artefice del miracoloso secondo posto della Real Sociedad in Liga nella stagione 2002/03) segna nella seconda frazione l'1-2 definitivo. Se la Turchia mercoledì supererà la Bosnia-Erzegovina all'Ali Sami Yen di Istanbul, sarà ancora Fatih Terim II, imperatore Hackab di Persia.
Notizie d'oltreoceano: l'Argentina consolida il primato nel girone unico di qualificazione ai Mondiali di Sud Africa 2010, vincendo al Monumental 3-0 sulla smilitarizzata Bolivia con due reti di Riquelme (un grande plauso per el mudo, sempre a segno in albiceleste nonostante l'inattività forzata tra le porcellane di Villareal: campione da salvare) e gol iniziale di Aguero.
A Montevideo Uruguay e Cile pareggiano 2-2: padroni di casa avanti con Suarez, poi è maravilla roja: Centenario adibito a Plaza de toros; alguacilillos, cuadrillas, picadores e banderilleros cileni, entra el matador Marcelo Salas e segna due reti. Orgullo celeste e pareggio finale di Abreu all'81'.
Passerella finale dal Perù per Ricardo Izecson dos Santos Leite, demiurgo ex nihilo, forza ordinatrice, delizia per gli occhi: ultimo capolavoro al minuto 40 feita em Lima. Ma la blanquirroja pareggia al 30' con Vragas, patrocinata dalle alchimie stregoniche degli sciamani andini di Cusco, e nonostante i loro sincretici voodoo, Kakà e Ronaldinho escono dal campo sulle loro gambe, deo gratia e buona pace di tutti.

venerdì 16 novembre 2007

O cigano Ricardo

Ha spezzato e poi deluso talmente tanti cuori che oggi sembra quasi impossibile sostenere che sì, finalmente, Ricardo Quaresma, esterno del Porto e della nazionale lusitana, ha messo la testa a posto, che ci si può fidare di lui. Gli innamoramenti e i messaggi teneri (dall’Italia hanno provveduto a inviare missive Inter, Juve e Fiorentina) arrivano in riva all’Oceano Atlantico con una frequenza che non lascia sospetti: Quaresma è pronto a fare la differenza per davvero, e stavolta nessuna ricaduta. Le uscite con il nuovo Porto di Jesualdo Ferreira hanno levato parecchi dubbi su un giocatore che dal punto di vista tecnico e fisico illumina l’élite mondiale. L’ultimo salto di qualità, quello mentale, quello decisivo, l’ha ottenuto quest’anno. Questa storia del carattere difficile Quaresma se l’è sempre portata dietro. Laszlo Boloni che lo lanciò in prima squadra allo Sporting lo soprannominava Mustang, come quei cavalli purosangue impossibili da irreggimentare.
Lisbona, Campo de Ourique, vicino Casal Ventoso. Cresce qui il giovane Ricardo Andrade Quaresma Bernardo. Mamma Fernanda e papà Antonio si lasciano presto e Ricardo da giovanissimo va matto per l’hockey a rotelle, ma la sua prima figura di riferimento, il fratello maggiore Alfonso, è pazzo di calcio e nel quartiere è già una star del piccolo Desportivo Domingos Sávio. L’ammirazione di Ricardo per Alfredo rimane ancora oggi sconfinata: «vieni con me che ti faccio giocare!», e l’invito del fratello è un ordine nel cuore di Quaresma, così il Domingos Sávio aggiunge un nuovo attaccante e i pattini e il karate, altra passione del giovane, perdono un praticante che, dato il fisico, poteva venire fuori buono. Due volate nei campi polverosi e subito lo Sporting Lisbona, la squadra del più celebre vivaio portoghese, lo porta a casa, Quaresma ha otto anni. Tutto bene, no? Neanche per sogno. La figura paterna che non può essere presente pesa profondamente sull’infanzia di Ricardo: i celeberrimi tram della capitale portoghese accolgono le sue lacrime: «tutti i genitori venivano a prendere i propri figli, gli chiedevano com’era stato l’allenamento, cosa avevano fatto, salivano sulla macchina e se ne andavano. Per me non veniva nessuno, mia madre doveva lavorare continuamente per mettere qualcosa in tavola. Io rimanevo lì, poi me ne andavo a casa coi mezzi, da solo, quando mio fratello era impegnato nelle categorie maggiori e non aveva i miei orari. Il groppo alla gola lo scioglievo solo quando se n’erano andati tutti. Lo trovavo profondamente ingiusto, mi chiudevo in me stesso ed ero arrabbiato col mondo». Il papà di Quaresma è di origine zingara e Ricardo è sempre andato fiero di questa sua 'diversità' culturale, sempre sottolineata come una sua ricchezza. O cigano, un altro dei suoi soprannomi, è fiero. Mai ammette o ammetterà qualche battutina pesante nei suoi confronti: l’orgoglio gli fa dire che il Portogallo andrebbe meglio se fosse governato da zigani. Adesso è pieno d’oro, ha una serie incredibile di tatuaggi, adotta look spregiudicati, ha raggiunto uno status che lo lascia indifferente alle paternali di cronisti e osservatori invidiosi del suo successo: «Si vede che sei di origine zingara?» - «Mamma è di origine angolana, anche gli africani amano l’oro, e poi a me piacciono tanto gli orologi». Proprio un fratello di Donha Fernanda (è bianca) era una star dello Sporting Luanda, anche se il nomignolo, cioè il battesimo calcistico dei giocatori nati in paesi lusofoni, viene da un lontano parente già capitano e difensore centrale del Belenenses, la squadra più antica di Lisbona: si chiamava Quaresma, Ricardo ne perpetuerà il nome. Le lacrime sui tram non finiscono, la scuola non ingrana nemmeno un po’, ma sul rettangolo verde Mustang non fa prigionieri: il suo talento rapisce tutti i migliori tecnici, César Nascimento, Osvaldo Silva («quello che mi aiutato di più, un maestro di calcio e di vita», dice oggi l’attaccante), Paulo Leitão e Zézinho. Nelle escolinhas del club biancoverde fa sfracelli. Da infantis gioca due stagioni, realizza 63 gol e si laurea campione nazionale nella stagione 1994/95. Altre due stagioni nella categoria iniciado e altri 38 gol. Nella categoria juvenis ottiene finalmente il suo primo stipendio, 10 mila escudos. La stagione 98/99 è piena di soddisfazioni: vince il campionato anche grazie alle sue 33 segnature. Il passaggio tra gli juniores viene considerato superfluo dai dirigenti del Leone. Quaresma è subito assegnato alla squadra B di Alvalade: è la stagione 2000/01 e Harry Potter, un altro dei suoi nick, esordisce contro l’Olhanense. Viene poi convocato per l’Europeo under 16 di quell’anno: grande torneo e finale con la Repubblica Ceca. 14 maggio 2000, Ramat Gan, Israele: Quaresma decide il match con il golden gol e porta la Selecçao a rinverdire i fasti della Geraçao de Ouro, quella di O rei Manuel Rui Costa e di Luis Figo che ha dominato i tornei giovanili. La stagione 2001/02 è quella dell’aggregazione alla prima squadra, proprio con Laszlo Boloni, quello del Mustang, un altro sbalordito dal talento del diciassettenne che deve allenare. Il contratto che viene sottoposto al suo manager di allora José Veiga (oggi direttore generale del Benfica, come cambia il mondo...) scade nel 2004 ma la società, dopo pochissimo tempo richiama in società il calciatore: sente profumo di grande promessa, il contratto si allunga di un anno e la clausola rescissoria viene fissata in sei milioni di euro: stiamo parlando ancora di un minorenne ma a Lisbona qualcuno ha sbagliato i conti. La trafila tra le giovanili dello Sporting ha dato i suoi frutti, grande tecnica di base e coordinazione ineccepibile; il resto ce lo mette il giocatore che ha una forza fisica, un’eleganza e un’inventiva fuori dal comune. Visto il Paese: un’apparizione. Più di un tifoso, più di un osservatore sentenziarono che era dai tempi di Figo e Futre che non usciva un talento del genere dalle porte dell’Alvalade. Anzi, qui il potenziale è pure maggiore. Sotto i cieli biancoverdi sta sbocciando anche il giovane Cristiano Ronaldo, acerbissimo (ha due anni meno di Quaresma), che Sir Alex Ferguson (per merito di Queiroz, il suo vice) ha già adocchiato. L’estate del 2003 sarà la data di addio alla capitale portoghese per entrambi, chi svolta ad ovest, chi a est: per il Mustang non domato ci sono le praterie catalane ma il fantino sbagliato, Frank Rijkaard. Sei milioni di euro più Rochemback vanno allo Sporting, non un affarone. Incomprensioni con l’olandese fanno pure credere che la cifra sia eccessiva. In blaugrana si rianima il ritornello nato nel secondo anno allo Sporting: bravo, ma non è continuo, gli manca la testa. Parte titolare solo dieci volte in stagione: l’ex centrocampista del Milan, inizialmente innamoratosi, come tutti, diventa perplesso. Non gli piacciono certe attitudini, lo qualifica come cambio e resta un giocatore di complemento, senza fiducia né opportunità importanti. L’infortunio al piede destro verso il finire della stagione, che lo toglie dal ballottaggio per l’Europeo da giocare in casa, è una mazzata tremenda. Intervistato durante quell’estate è categorico, «o se ne va Rijkaard o me ne vado io dal Barça». Opzione B per il presidente Laporta che per arrivare a Deco sacrifica il talento portoghese. Ritorno in Portogallo, stavolta a Nord, per Quaresma. Partenza col botto e coppa Intercontinentale in bacheca. Poi una serie di alti e bassi, nel Porto sconclusionato del post Mourinho e le solite accuse. Scolari ha già costruito la squadra per i mondiali, ma il Portogallo chiede la convocazione di Quaresma per Germania 2006 : il battage mediatico infastidisce il permaloso Felipao che lascia all’under 21 l’attaccante esterno (ruolo, inoltre, decisamente coperto nella Selecçao). Per l'intero 2007 -come detto- è però super Quaresma e in Champions ha l'argento vivo: o cigano è diventato grande.

Articolo pubblicato sul Guerin Sportivo del 12 marzo 2007 e sul blog http://bardelleantille.blogspot.com/ da Carlo Pizzigoni.

mercoledì 14 novembre 2007

Italy live at Wembley

14 novembre 1973. L'Italia, con un gol di Fabio Capello al minuto 86, vince per la prima volta contro l'Inghilterra a Wembley Stadium. Gli azzurri hanno superato i maestri per una seconda volta a Wembley il 12 febbraio 1997 (gol di Gianfranco Zola su tiro deviato da Soul Campbell), in un incontro valido per le qualificazioni ai Mondiali di Francia '98. La terza vittoria dell'Italia in Gran Bretagna è avvenuta il 27 marzo 2002 quando a Leeds, in un test-match pre-Mondiale, gli azzurri vinsero per 2-1 con due reti di Vincenzo Montella.
Nel 1993 il Parma ha sollevato a Wembley la Coppa delle Coppe, superando 3-1 l'Anversa. Nel 1999 la Fiorentina, grazie a una rete di Gabriel Omar Batistuta, ha sconfitto l'Arsenal a Wembley nel giorne eliminatorio di Champions League.
Il 24 marzo 2007 le selezioni under 21 di Inghilterra e Italia inaugurano il nuovo Wembley dopo sette anni di chiusura. Dopo trenta secondi Giampaolo Pazzini segna la prima rete ed entra nella storia del calcio (fu un altro italiano, Roberto Di Matteo, a segnare l'ultima rete prima della chiusura e dell'abbattimento del vecchio Wembley, nella finale di FA Cup del 29 maggio 2000 vinta dal Chelsea sull'Aston Villa per 1-0). Poi l'Inghilterra in vantaggio per due volte con Bentley, Routledge e Derbyshire. La partita termina 3-3 con hat-trick di Pazzini: il pubblico inglese gli riserva la devota standing ovation e il pallone della partita con le firme di tutti i partecipanti finisce in bella esposizione nella casa natale di Pescia, a millecinquecentocinquantanove chilometri dal Tempio.

lunedì 12 novembre 2007

Non è più domenica

di Alberto Santi

Non è più domenica, ma probabilmente non c’è di che preoccuparsi: stiamo soltanto facendo un brutto sogno, un incubo…
Perché solo negli incubi ti accorgi di tombini in ghisa allo stadio, bambini spaventati in lacrime e gente che sconsolata abbandona lo stadio ancor prima dell’inizio della partita. La cosa che più mi preoccupa è che da qualche anno a questa parte non abbiamo più avuto una notte tranquilla, soltanto una piccola illusione chiamata Berlino e niente più.
Non è più domenica: calciopoli, scommesse, tifoserie assalite e assalitrici, polizia in fuga, città che bruciano, campionati che si fermano, trasferte negate, striscioni vietati, stadi chiusi, controlli anti-terroristici, monete sugli arbitri, seggiolini in campo, risse tra giocatori e tante parole buttate al vento. Le parole di chi è a capo di questo calcio che non mi sento piu di chiamare gioco, perchè in quale gioco sono gli spettatori a deliberare come finirà la partita? Prima il pubblico guardava e i calciatori erano gli unici protagonisti, adesso gli spettatori i protagonisti e i calciatori a guardare sconsolati. Guardano quel pallone che si sgonfia pian piano senza più gonfiare la rete.
Da quando Pizzul non commenta e Baggio non gioca più...
Non è più domenica! Non è più calcio!

domenica 11 novembre 2007

In memoria di Gabriele Sandri

Povera patria...
Schiacciata dagli abusi del potere
di gente infame che non sa cos'è il pudore,
si credono potenti e gli va bene quello che fanno;
e tutto gli appartiene.
Tra i governanti, quanti perfetti e inutili buffoni...
Questo paese è devastato dal dolore,
ma non vi danno un po' di dispiacere
quei corpi in terra senza più calore?
Non cambierà, non cambierà,
no cambierà, forse cambierà.
Ma come scusare le iene negli stadi e quelle dei giornali?
Nel fango affonda lo stivale dei maiali.
Me ne vergogno un poco e mi fa male
vedere un uomo come un animale.
Non cambierà, non cambierà,
sì che cambierà, vedrai che cambierà.
Voglio sperare che il mondo torni a quote più normali
che possa contemplare il cielo e i fiori,
che non si parli più di dittature
se avremo ancora un po' da vivere...
La primavera intanto tarda ad arrivare

Franco Battiato

Contro tutti coloro che, con volgare ostinatezza, ritengono che questo sia ancora il prezzo da pagare.

sabato 10 novembre 2007

L'insostenibile leggerezza dell'essere

Paolo Mantovani era diverso dagli altri presidenti, perchè lui si divertiva a farlo.
Sull’aereo, di ritorno dal Belgio dove la Samp aveva perso con il Makelen, ero fra lui e Boskov che ritenevo il responsabile della sconfitta.
«Lo mandi via prima del ritorno, altrimenti non andremo mai avanti in Coppa…» gli dicevo tra il serio e lo scherzoso con Boskov che avrebbe voluto strozzarmi.
E Mantovani replicò: «Guardi Rossi, sono sicuro che passeremo il turno. In tal caso lei cosa è disposto a fare?»
Gli risposi: «Mi metto in ginocchio e dico a Boskov che è il più grande allenatore del mondo…». Boskov intervenne, mi porse la mano e disse: accetto.
Gara di ritorno, vince la Samp per 3-0 e passa il turno.
Mentre sto scrivendo l’articolo per "Il Giorno", arriva Mantovani e mi dice: «Per favore venga con me». Io mi alzo e lo seguo in una saletta del ristorante Edilio dove c’è Boskov che mi aspetta. Io mi ero dimenticato della promessa e Mantovani me la ricorda: «Prego si metta in ginocchio». E mi inginocchiai davanti a Boskov dicendo: «Sei il più grande allenatore del mondo...». Poi champagne per tutti e tre.
Ma era durante il calciomercato che Mantovani si divertiva di più.
Una volta mi telefonò verso le otto di sera, quando resta poco tempo per scrivere e occorre dare gli ultimi aggiornamenti. Saltò tutti i preliminari: «Sono in un isola lontano dall’Italia, ho venduto un giocatore di sei lettere, ruolo di sei lettere, a una squadra di sei lettere», mi disse tutto d’un fiato prima di mettermi giù la cornetta.
Era Renica, libero, ceduto al Napoli…
Un pomeriggio del luglio del 1988 ero in ufficio e assieme al collega Pianura (il cognome naturalmente è un altro) simpatizzante dell’Inter e mi chiamò Mantovani per dirmi che il Milan gli aveva chiesto Vierchowod.
Avevo messo il 'viva voce' e Pianura sentì tutto e si affrettò a darmi un suggerimento che riferii subito a Mantovani: «Presidente, c’è il collega Pianura se non vende Vierchowod al Milan le promette un regalo».
La risposta di Mantovani fu gelida: «Io non voglio regali, ma soldi».
Pianura rimase sbigottito: Mantovani era considerato uno degli uomini più ricchi d’Italia, quanti soldi avrebbe dovuto dargli affinché Vierchowod non finisse al Milan?
Passa una settimana e Mantovani mi chiama: «Domani vengo a Milano, dica a Pianura che ci troviamo in Piazza Medaglie d’oro a mezzogiorno, deve mantenere la promessa».
Il giorno dopo, almeno quaranta gradi all’ombra, Pianura ed io puntuali all’appuntamento. Andiamo al ristorante e dopo il dolce Mantovani chiede a Pianura di pagargli il mancato trasferimento di Vierchowod al Milan.
Pianura non sa che dire, vorrebbe sprofondare e Mantovani gli viene incontro: «Mi firmi un assegno in bianco».
Cosa che Pianura regolarmente fa. Mantovani prende l’assegno e ci scrive sopra la cifra, "diecimila lire", ringrazia e se ne torna a Bogliasco.
Quell’assegno non fu mai mandato all’incasso e per anni è rimasto incorniciato sulla parete dell’ufficio di Mantovani a Bogliasco.
Lui era un presidente così, un presidente che prima di ogni altra cosa cercava il divertimento: per se stesso, i tifosi della Samp e per tutti quelli ai quali voleva
bene.

Scritto da Franco Rossi e pubblicato su Il Corriere dello Sport il 6 luglio 2004.

giovedì 8 novembre 2007

Accadde oggi

8 novembre 1942. Nasce a Torino Alessandro Mazzola, figlio dell'indimenticato Valentino, capitano del Grande Toro, scomparso nel disastro aereo di Superga nel 1949.
Dal 1960 al 1977 Sandro Mazzola gioca 418 incontri in serie A (compreso lo spareggio scudetto del 1964), tutti con la maglia dell'Inter, realizzando 116 gol. È l'Inter del Mago Herrera, e Mazzola vince 4 titoli nazionali, 2 Coppe dei Campioni e 2 Coppe Intercontinentali. In nazionale italiana 70 presenze e 22 gol, il titolo di campione d'Europa nel 1968 e quello di vicecampione ai Mondiali del 1970.
Buon Compleanno Sandro.

mercoledì 7 novembre 2007

Rombo di tuono

7 novembre 1944. Nasce a Leggiuno (Varese) Luigi Riva, ancora attualmente detentore del primato di reti con la maglia della nazionale italiana (35 segnature in 42 presenze). In serie A Riva -tra il 1964 e il '76- ha realizzato 156 reti in 289 incontri, tutte con il Cagliari (20 gol in 49 incontri tra B e C nei primi due anni di carriera con Legnano e Cagliari).
Corteggiato per anni da Milan, Inter e Juventus, Gigi non lasciò mai Cagliari, regalandole nella stagione 1969/70 l'unico titolo nazionale della sua storia calcistica.
Campione d'Europa con l'Italia nel 1968, Riva non ha realizzato nessuno dei 211 gol della sua carriera con il piede destro che, secondo Manlio Scopigno -allenatore dello scudetto- avrebbe utilizzato solo a salire sul tram.
Buon Compleanno Rombo di tuono.

lunedì 5 novembre 2007

Un Barone è per sempre

Si è spento oggi 5 novembre 2007 a 85 anni di età Nils Liedholm, il Barone, ex calciatore e allenatore svedese. Liedholm abitava a Cuccaro (Alessandria), nei pressi di Monferrato, dove si occupava da tempo di una piccola tenuta agricola specializzata in produzione vinicola.
La Svezia (23 presenze, 11 gol), il Milan (359/81) poi, da allenatore, la Roma. Questa la parabola calcistica del Barone, fuoriclasse in campo e fuori, vincitore da calciatore dell'oro olimpico a Londra nel 1948 e di quattro titoli nazionali italiani negli anni Cinquanta con il Milan. Vicecampione del mondo nel 1958 con la Svezia, il suo volto dai nobili lineamenti e rassicuranti sorrisi venne scelto per la copertina del primo album calciatori Panini campionato 1960/61. Da allenatore vinse con il Milan lo scudetto della 'stella' nel 1979, con la Roma il suo secondo titolo italiano nel 1983. L'anno seguente condusse la Roma fino alla finale di Coppa dei Campioni, inchinandosi al Liverpool soltanto ai calci di rigore (nell'80-81 vincemmo la Coppa Italia in finale col Torino, ai rigori. Il primo lo tirò Ancelotti, l'ultimo Falcao, che non ne aveva più calciato uno da quando aveva 13 anni. Era molto sensibile Paulo. Era un leader strano. Consigliava al leader vero le cose da dire in spogliatoio. Sapevo che avrebbe sofferto quella passeggiata da centrocampo al dischetto, con tre miliardi di occhi addosso. Perciò lo tenni fuori dalla lista dei rigoristi contro il Liverpool. Sbagliarono anche due campioni del mondo. Quella passeggiata pesa). Liedholm verrà sempre ricordato per la sua distinta classe e per l'ingenita eleganza, quell'accuratezza nell'espressione e quella ponderata rarefazione nei gesti che gli valsero i titoli nobiliari calcistici. Inarrivabile modello comportamentale, in più di vent'anni sui campi da gioco non venne mai ammonito.
Nato a Valdemarsvik l'8 ottobre 1922, Nils da bambino alternò il pallone allo sci di fondo. Esordì nel campionato svedese a vent'anni nell'IK Sleipner, poi nel Norrkoping (due titoli nazionali) dal 1946 al '49, anno in cui, già affermatosi nei Giochi Olimpici dell'estate precedente, venne acquistato dal Milan, diventando dopo poche stagioni leggenda del calcio mondiale insieme ai connazionali e compagni di squadra Gunnar Gren e Gunnar Nordhal. Del Gre-No-Li rappresentò la geometria euclidea e la più ragionata estetica calcistica che, molti anni dopo, egli stesso riconobbe nelle meraviglie di Giancarlo Antognoni. Incantò Milano con lunghe e perfette trame di passaggi, amando raccontare che la prima volta che ne sbaglio' uno dopo circa decine di incontri, tutto il pubblico si sistemò in piedi per applaudirlo. Mancino, giocò da centrocampista e a fine carriera, con ugual profitto, da libero.
Ritiratosi nel 1961 e subito vice del paron Rocco sulla panchina del Milan, scelse l'Italia come definitiva residenza. Ha allenato il Milan dal 1963 al '66 magnificando l'ascesa calcistica di Gianni Rivera, poi dal '77 al '79 e dall'84 all'87, artefice del battesimo calcistico di Paolo Maldini. Nella Roma, allenata dal 1979 all'84 e nel 1997 (ultima suo incarico in panchina) plasmò a sua immagine e somiglianza Agostino Di Bartolomei, capitano dello scudetto '83. Premuroso mentore di un calcio di massima attenzione tattica (non si deve criticare solo il catenaccio. Ci si difende anche a centrocampo, con mille falli tattici. Io ripetevo ai miei giocatori: se fai fallo sbagli due volte. La palla resta a loro e mandi un messaggio di debolezza. Io mi allenavo molto, contro un giocatore o due, per portar via palla senza fare fallo), nella sua lunga e instancabile carriera ha allenato anche Verona, Monza, Varese e Fiorentina con fortune alterne. Ritiratosi nel Monferrato, è stato fino a pochi anni fa consulente di mercato della Roma (un esempio per tutti, Zlatan Ibrahimovic, già raccomandato a Sensi ai tempi del Malmoe).
Liedholm era conosciuto e amato per la maldestra ma gustosissima padronanza della lingua italiana e subito facilmente riconoscibile diventò il suo divertito gusto per l'iperbole e per alcuni paragoni perlomeno approssimativi o del tutto arditi, piccole perle di sottile e inimitabile umorismo: Mandressi venne indicato come «l'erede di Rensenbrink», Tosetto «il Keegan della Brianza», persino il carneade Gaudino come «il nuovo Nordhal» e Valigi «il nuovo Falcao». Lidas era molto scaramantico, si affidava a un indovino di fiducia che consultava scrupolosamente prima di importanti incontri e dal quale si recava accompagnato da numerosi giocatori prescelti. Credeva nell'oroscopo e con arguta civetteria palesava spesso come molti grandi calciatori erano di segno zodiacale Bilancia o comunque nati nel mese di ottobre. Sempre i soliti gli inconfutabili esempi: se stesso, Paolo Roberto Falcao (il suo prediletto), Pelè e Diego Armando Maradona.
Il Gre-No-Li vinse con la nazionale svedese l'oro alle Olimpiadi di Londra del 1948, piegando in finale la Jugoslavia per 3-1.
Il 29 giugno 1958 la Svezia affrontò a Stoccolma il Brasile nella finale dei Campionati del Mondo. La selecao del giovanissimo Pelè vinse 5-2, ma il Barone la ricordò sempre con amaro sarcasmo come la sua partita migliore, essendo uscito dal campo per infortunio dopo aver segnato la prima rete dell'incontro. Quel giorno Svensson, Bergmark, Axbon, Borjesson, Gustavsson, Parling, Hamrin, Gren, Simonsson, Skoglund e Liedholm scrissero, nonostante l'inevitabile sconfitta, la più bella pagina di storia calcistica del loro paese.

Habemus Sebastian

Secondo le prime consultazioni, Sebastian Giovinco -torinese classe 1987- diventerà un "grande" di Futbolandia.
Giovinco è un trequartista brevilineo (1.64 cm per 59 kg) di versatile tecnica e rapidità, importante visione di gioco e proficua esecuzione da fermo. Milita attualmente nell'Empoli in prestito dalla Juventus.
Con la signora ha completato l'intero percorso delle formazioni giovanili, concludendo in Primavera da primo attore (già nel 2005 Capello lo volle spesso agli allenamenti della prima squadra riservandogli la pettorina da trequartista della compagine riserve nelle partitelle infrasettimanali) con la vittoria del titolo nazionale di categoria nel 2006, della Supercoppa e della Coppa Italia Primavera nella stagione 2006/07, pochi giorni prima dell'esordio in prima squadra in Juventus-Bologna (3-1) del 12 maggio. Sebastian subentra a Palladino al minuto 75 e confeziona l'assist per la terza rete di Trezeguet. La Juventus ipoteca la vittoria del campionato di serie B 2006/07 e Sebastian gioca ancora due partite (contro Mantova e Triestina) in maglia bianconera.
Giovinco esordisce nella massima serie il 26 agosto 2007 in Fiorentina-Empoli (3-1), segnando la sua prima rete poco più di un mese dopo in Empoli-Palermo (3-1) del 30 settembre con una bella conclusione dal limite dell'area avversaria. Giovinco si adegua alle vicissitudini della 'piccola' Empoli, giocando da ala su entrambe le fasce o come seconda punta in appoggio a Saudati terminale offensivo. Il 4 ottobre 2007 esordisce in campo europeo al Letzigrund Stadion di Zurigo nell'incontro di ritorno del primo turno di Coppa Uefa, ma gli elvetici vincono per tre reti a zero e Sebastian dovrà attendere per bissare sotto i riflettori internazionali. Nell'ultimo turno di campionato del 4 novembre Giovinco segna nei minuti di recupero la rete del definitivo 2-2 contro la Roma su calcio di punizione, calciando direttamente in porta da una zolla remota del campo con quella sfrontata incoscienza, peculiare esclusiva di giovanissimi e istrionici interpreti dell'officio calcistico.
Giovinco ha giocato complessivamente 22 partite con cinque reti segnate nelle rappresentative nazionali giovanili (dalla under16 alla under20 tra il 2003 e il 2006). Nel 2007 ha disputato sette partite in under21 esordendo il 1 giugno da titolare contro l'Albania nella prima gara di qualificazione al Campionato Europeo del 2009 vinta dagli azzurrini per quattro reti a zero.
Presto Giovinco saprà sopperire alla deficitaria statura fisica con un idoneo accrescimento muscolare, in modo da resistere ai mordaci affondi dei granitici sobillatori nostrani, esecrandi profanatori domenicali del tempio di Vesta. Un'unica raccomandazione caro Sebastian: non ti curare dei tanti che con ridondanza ti ripeteranno di dimenticarti dei gentili virtuosismi, perchè nella vita c'è chi si occupa con abile ultimazione dei favori materiali e chi, seppur con delicata distrazione, si fa garante dell'incanto e delle meraviglie del mondo, sia ques'ultimo gentil cantore o devoto esegeta del gioco del calcio.

domenica 4 novembre 2007

De rerum imperii

Il 1 aprile 2007 la FIFA ha riconosciuto al Palmeiras il primo titolo intercontinentale per club della storia del calcio, in merito alla vittoria nel 1951 della Copa Rio (disputata in Brasile), torneo nel quale i brasiliani si imposero sui connazionali del Vasco da Gama, la Juventus, il Nizza, lo Sporting Lisbona, il Nacional Montevideo, l'Austria Vienna e la Stella Rossa. Sul riconoscimento delle edizioni del 1952 e del 1953, vinte dal Fluminense e dal Vasco da Gama, la FIFA si pronuncerà a titolo definitivo in questo mese.
Tra gli anni cinquanta e settanta si è disputata a Caracas con partecipazioni su invito la Pequeña Copa del Mundo (vinta da Real Madrid, Millonarios, Corinthians, San Paolo, Barcellona, Benfica, Valencia, Athletic Bilbao, Sparta Praga, Vitoria Setubal e D.D.R.XI) riservata ai migliori club sudamericani e a quelli europei con miglior piazzamento nella Coppa Latina, antenata della Coppa dei Campioni. Il torneo decrebbe di qualità e prestigio con l'avvento della Coppa dei Campioni, della Copa Libertadores e della Coppa Intercontinentale, sino a venire dapprima sospeso due volte e quindi, dopo un'ultima edizione nel 1975, cancellato definitivamente.
Nel 1969 e nel 1970 sono state disputate due edizioni della Super Coppa Intercontinentale (vinte da Santos e Penarol) cui accedevano soltanto le squadre che avevano vinto in almeno un'occasione la Coppa Intercontinentale, così come nella prima edizione del Mundialito per Club nel 1981, torneo organizzato a Milano per raccogliere il testimone della Pequeña . Le tre edizioni disputate (1981, 1983, 1987) registrarono la vittoria di Inter, Juventus e Milan, con la partecipazione di squadre di importante levatura (Peñarol, Santos, Flamengo, Porto, Barcellona, Feyenoord e Paris Saint-Germain).

La Coppa Intercontinentale, cui partecipavano la detentrice della Coppa dei Campioni e la vincitrice della Copa Libertadores, è stata assegnata dal 1960 al 2004.
Le squadre argentine hanno vinto il maggior numero di edizioni (nove sigilli): dopo il Racing di Avellaneda (1967), si sono imposte l'Estudiantes nel 1968, l'Independiente nel 1973, il Boca Juniors nel 1977, l'Independiente nel 1984, il River Plate nel 1986, il Velez Sarsfield nel 1994 e il Boca Juniors nel 2000 e 2003. Il Brasile (Santos 1962 e 1963; Flamengo 1981, Gremio 1983, San Paolo 1992, 1993 e 2005, Internacional Puerto Alegre 2006) vanta otto trofei, l'Italia sette con tre successi del Milan (1969, 1989, 1990) due dell'Internazionale (1964, 1965) e due della Juventus (1985, 1996), l'Uruguay sei (Penarol 1961, 1966, 1982; Nacional Montevideo 1971, 1980, 1988), la Spagna quattro (Real Madrid 1960, 1998, 2002; Atletico Madrid 1974). Tre successi per le squadre tedesche (Bayern Monaco 1976 e 2001, Borussia Dortmund 1998) e olandesi (Ajax 1972 e 1995, Feyenoord 1970), due per il Porto (1987, 2004), una coppa per l'Olimpia de Asuncion (1979), il Manchester United (1999) e la Stella Rossa Belgrado (1991).
Dal 1960 al 1979 per l'assegnazione della Coppa Intercontinentale (non disputata nel 1975 e nel 1978) si sono giocati incontri di andata e ritorno tra la squadra vincitrice della Coppa dei Campioni e quella titolare della Libertadores. A partire dal 1980 è stata adottata la soluzione della partita unica sul 'campo neutro' del National Stadium di Tokyo e, dal 2001, all'International Stadium di Yokohama.

Dal 2005 si disputa, in sostituzione della vecchia formula, il Campionato Mondiale per Club cui prendono parte le squadre vincitrici dei sei tornei continentali FIFA: la Champions League, la Copa Libertadores, la CONCACAF (Nord America, Centro America, Caraibi), la CAF (Africa), la AFC (Asia) e l'OFC (Oceania). Dalla prossima edizione parteciperà al torneo anche la squadra vincitrice del campionato nazionale della federazione ospitante (la J-League giapponese).
L'attuale formula del Campionato Mondiale per club, in vigore dal marzo 2007, prevede pertanto un turno preliminare eliminatorio tra la squadra titolare della OFC e i detentori della J-League. La vincente del turno preliminare disputa il primo turno (accoppiamenti eliminatori) con le squadre vincitrici dei tre tornei continentali di Nord-Centro America, Africa e Asia. I vincitori del primo turno partecipano alle semifinali cui accedono, di diritto, i detentori dei trofei continentali di Europa e America del Sud. Oltre alla finale per il primo e secondo posto (a Yokohama) si svolgono le finali per il terzo e quarto posto (tra le due sconfitte delle semifinali) e per il quinto e sesto posto (tra le due sconfitte del primo turno).
Il primo FIFA World Club Championship, che di fatto sostituisce la Coppa Intercontinentale, la Coppa Interamericana e la Coppa Afro-Asiatica, è stato disputato in forma sperimentale in Brasile nel 2000 (vinto dal Corinthians al Maracanà di Rio de Janeiro) ma per quell'anno non considerato sostitutivo all'antica competizione (vinta dal Boca Juniors a Tokyo).
Prenderanno parte tra il 7 e il 16 dicembre al Mondiale per Club 2007 i neozelandesi del Waitakere United, i messicani del Pachuca, i vincitori della AFC (finale tra Sepahan FC e Urawa Reds il 7 novembre), i vincitori della CAF (finale tra Etoile du Sahel e Al Ahly l'11 novembre), l'Urawa Red Diamonds (in qualità di vincitrice del campionato nazionale giapponese), il Boca Juniors e il Milan.