Mai come in questo momento il termine «scacco matto è stato così pregno di significato, così attinente alla sua stessa antica etimologia: il re è morto,. Non un sovrano qualsiasi, ma quello che milioni di scacchisti in tutto il mondo hanno da sempre considerato il re degli scacchi. Morto in un ospedale di Reykjavik, la capitale dell'Islanda, proprio in quella città in cui trentacinque anni fa vinse il primo campionato mondiale di scacchi, battendo Boris Spassky e, con lui, l'annosa supremazia sovietica.
Robert James Fisher, noto a tutti come Bobby, il ragazzo di Brooklyn che aveva iniziato ad esibirsi al Manhattan Chess Club nei primi anni Cinquanta, emerse nel giro di pochi anni tra tutte le promesse scacchistiche che affollavano lo storico circolo di New York. Campione degli Stati Uniti a quattordici anni, grande maestro a quindici; poco più che un bambino, già si diveriva a «demolire l'ego» dei suoi avverasri, allora il fior fiore dello scacchismo statunitense. Già allora la personalità di Bobby Fisher rispecchiava i tratti del suo gioco: eccentrico, geniale, intransigente, ribelle. Nella sua totale dedizione agli scacchi non c'era posto per altro, le sue uniche letture: manuali e riviste di scacchi; l'umanità stessa era rappresentata solo da giocatori di scacchi e, tra questi, c'erano quelli buoni e quelli mediocri.
Aveva un solo interesse nella vita e un unico scopo da perseguire e conquistare il titolo mondiale. E la sua ascesa al titolo fu quanto di più spettacolare ci si potesse aspettare. Nei suoi incontri di qualificazione per il titolo annientò il russo Mark Tajmanov e il danese Bent Larsen per 6 a 0 e dopo aver vinto con il russo Tigran Petrosjan, soprannominato l'orso per «l'abbraccio mortale» con cui stritolava la difesa dei suoi avvesari, non restava che l'ultimo incontro con il campione sovietico Boris Spassky.
Sulle vicende di quello storico match giocato a Rykjavik nel 1972, nel periodo più critico della guerra fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica si sono scritte decine di migliaia di pagine che varrebbe la pena di rileggere. Il ragazzo di Brooklyn, da solo, con la sua caparbietà e la sua voglia di vincere diventò il paladino di un'America in cui era ancora possibile credere. Dopo la vittoria suprema (Fischer concedette la rivincita a Spassky nel settembre '92, disputata nell'ex Jugoslavia sotto embargo Onu) seguì una forma di declino inarrestabile. Esiliato a Budapest per decenni a causa delle sue idee («Perchè ho scelto di vivere a Budapest? Ci sono le donne più belle del mondo. Si vedono più donne belle qui in cinque minuti che a Los Angeles in una settimana»), finì per trovare rifugio proprio in quella città in cui si era avverato il suo sogno. C'è nella vita contraddittoria e ribelle di Bobby Fischer una sorta di purezza, un ideale di verità e bellezza che trascende la grandezza del suo gioco.
di Paolo Maurensig, La Gazzetta dello Sport, 19 gennaio 2008
sabato 19 gennaio 2008
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