BUENOS AIRES. Al fischio di chiusura di Sergio Gonella, dopo centoventi minuti di emozionante sfida, l'Argentina ha conquistato il suo primo titolo mondiale mentre gli ottantamila del River Plate erano vestiti di una sola bandiera, quella biancoazzurra, e gridavano -scandendola- una sola parola: «AR-GEN-TI-NA». in quell'attimo, chi ha potuto ha guadagnato frettolosamente l'uscita dello stadio a costo di essere scambiato per un tifoso olandese amareggiato. Era solo prudenza, invece: perché si sapeva che, di lì a poco, sarebbe scoppiata la rivoluzione.
Intorno al River Plate, un deserto che già minacciava di animarsi di una folla entusiasta, il frastuono che saliva carne un urlo di disperata gioia dal catino dello stadio, e da lontano l'eco di sirene, trombe, clacson che in ogni parte della metropoli già tifosi frenetici suonavano per sottolineare il grande, storico successo dell'Argentina e la prova maiuscola, davvero mondiale, di Mario Kempes, il «matador». Mi sono trovato quasi solo, mentre la festa del River continuava, come naufrago smarrito in gran tempesta. Intorno a me, un nugolo di poliziotti indecisi fra l'atteggiamento ufficiale e la voglia di gridare anche loro la gioia «mundial». Alcuni sventolavano banderillas biancazzurre, altri rispondevano con un gride agli sventolii e alle grida delle prime auto solitarie che sopraggiungevano nei pressi della «cancha» infuocata. Un poliziotto comprese il mio problema: come raggiungere il centro? «Esperamè, amigo», aspettami: fermò una macchina, confabulando un attimo con l'uomo che era alla guida, accompagnato da una donna e da un bimbo, poi aprì lo sportello: «Adios senor periodista, y suerte», buona-fortuna. Così cominciò un incredibile viaggio in una macchina gonfia di bandiere e poco dopo in mezzo a una fiumana di popolo biancoceleste che copriva con grida e canti il frastuono di migliaia di auto tutte dirette, come poche sere prima -dopo Argentina-Perù- verso l'obelisco il cuore della città, il cuore dell'intero Paese. Il mio amabile accompagnatore mi scoprì italiano: «Sono italiano anch'io, mi chiamo Testa, vengo da Olivos a festeggiare il trionfo della mia patria. La prego, scriva una cosa per me: dica che in Argentina ha vinto la pace.
Siamo poveri, forse, ma felici, onesti e vogliamo che tutto il mondo lo sappia». Si fa presto a cadere nella retorica, davanti a queste vicende, a queste affermazioni di sincera umanità, ma non si deve vergognarsene. Appena un mese fa, partendo dall'Italia, ognuno di noi portava nel cuore una grande paura: quella di partecipare a una drammatica cerimonia intrisa più di odio ohe dì amore, di motivi politici più che di sport. Ma fin dal primo giorno qualcosa è cambiato in noi, man mano che ci s'imbatteva in questa gente impagabile che da sempre ha conosciuto amarezze e che finalmente si apprestava ad un banchetto di felicità e voleva condividerla con tutti, con gli stranieri in particolare. Ogni straniero ohe arrivava a Baires costituiva per gli argentini una minaccia, una paura, un esame da superare. E non ci hanno provato in cento, in mille, in centomila: ma in venticinque milioni. Era la scritta che si leggeva dappertutto, a cominciar dall'aeroporto di Ezeiza: «venticinque milioni di argentini giocano il mondiale». L'hanno giocato e l'hanno vinto. Contro tutto e contro tutti. Contro i nemici interni (pochi) e quelli esterni, tanti; contro il sospetto e la malafede di chi voleva cancellare con un solo colpo di spugna le speranze di tanta gente, credendo con ciò di dare un duro colpo ad un regime che ha i suoi lati oscuri (e ne parleremo, nei prossimi giorni) e invece avrebbe condannato a trasformarsi in incubi i sogni del popolo più desideroso di pace che ci sia al mondo. Perché solo chi è uscito da una grande tragedia, e ancora ne sente il peso, come il popolo argentino, può capire quanto valgano la pace, l'amore, la fraternità, la libertà.
Tutto questo è riuscito a fare il calcio, imponendosi all'attenzione del mondo come una delle rare risorse idi pacificazione in tempo di odio fratricida. Forse qualcuno troverà insoliti e fuori posto questi argomenti all'Inizio di un commento che riguarda una vicenda dello sport: eppure, così come il primo sentimento che ci ha accompagnato costì era la paura, è altrettanto vero che la prima sensazione che si è provata all'ultimo minuto del «Mundial» è stata di grande soddisfazione: siamo noi, uomini per diversi motivi dati allo sport, gli ultimi ambasciatori della pace, gli ultimi abitanti di un paese felice. E adesso, Argentina Mundial.
di Italo Cucci, Guerin Sportivo, giugno 1978
sabato 29 dicembre 2007
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